Gunash “Great expectation”, recensione
Riffing grunge in Soundgarden style, una vocalità in cui le note alte si pongono come contrappasso ai downtuned appoggiati ad una sezione ritmica grezza e minimale, che dona il giusto sapore al tappeto sonoro di un mondo figlio legittimo dei migliori anni ‘90.
Si chiamano Gunash e, impeccabilmente prodotti da Go Down Records, con poche note riescono a raccontare stile, idee e un’accorta rivisitazione della Seattle dorata di chi ha deciso di lasciarsi senza preavviso. Un modo magnificamente raccontato da Sicktown, di certo tra i migliori episodi di un disco corposo, impreziosito in maniera inappuntabile (non tanto dalla cover art perfettibile quanto) dalle illustrazioni che rendono il booklet un oggetto da possedere.
Il suono granulare e ruvido si fa disorientante nelle strigliate armoniche di Mirror, in cui il trio riesce a mescolare sensazioni ispide, qui posate su note di facile accesso. Un compromesso di certo riuscito pronto a dare memoria al lato migliore di Scott Weiland, a tratti ricordato dalla linea vocale di Zor.
L’album prosegue tra stop and go e buon groove per poi arrivare ad attraversare le note sabbathiane di Stone Garden e Gunash blues, viaggio d’oltreconfine con cui la band gioca offrendo un piacevole divertissement.
Se poi episodi come Meansembrano perdere mordente, l’attenzione si pone sul punk rock di Death comes, tirata cavalcata sonora, il cui sapore d’oltreoceano è mitigato dal l’hammond di Rami Jaffee che, al pari del cello di Marco Allocco, palesa un piccolo ed innovativo orizzonte, in grado di posizionarsi tra generi vicini, pronti a mostrare la refrattarietà al fossilizzarsi, allontanando così l’intenzione di relegarsi in un unico universo, proprio come dimostra The killing silence, straordinariamente estraniante, proprio come un disco in cui entrare senza troppi dubbi.