Gualty “Transistor”, recensione
Prendete due dosi di Kraftwerk, una di Joy Division e tre di Talkin Head, mescolate e servite: ecco a voi Gualty, quartetto dedito ad un apparentemente cupo post-punk legato fortemente ad un recente passato in cui l’armonia (Stanotte) si mescolano ad una nereggiante e reiterata elettronica pronta a disegnare itinerari piacevolmente retrò.
L’album, legato alla sempre vitale Red Cat Records, demotiva fortemente l’acquirente a causa di cover art davvero poco accattivante, che ha il merito di mostrarsi coerente con la progettazione stilistica, ma che indubbiamente potrebbe finire per scoraggiare la curiosità dei più. Pertanto, cercate di andare oltre l’apparenza, perché la nuova opera di Simone Tilli ha qualcosa di interessante da raccontare, e lo fa in maniera inattesa.
Il disco, infatti offre uno sguardo modernista sulla realtà, mostrando deliziose striature cureiane in brani impeccabili come Gargantua, climax espressivo di un disco che gioca con il passato utilizzando idee del presente. Così accade anche nella partitura scomoda di Family Dream, la cui narrazione sembra riportare alla mente l’arte espressiva di Dentro me, e nella diluizione new wave di Sostanza aliene, spigoloso e disturbante rock, che come l’ottima Transistor sembrano voler omaggiare la straordinaria Trilogia del potere.
A chiudere l’LP è, infine, un outro rumorista, in cui la semantica futurista si unisce alla costante inquietudine di fondo, che permea un disco in grado di celare in sé idee, parole e note sintetiche.