Giovanni Succi “Il conte Kevenhüller”, recensione
Quest’Operetta a brani,
Lettor, non ti sia sgradita.
Accettala così com’è,
finita e infinita.
Immaginate di entrare in un vecchio negozi di dischi, proprio come quello scritto da Nick Hornby in Alta fedeltà o ancor meglio quello descritto per immagini da Kubrick, quando segue il suo Alex vestito di tutto punto mentre scartabella i vinili. Solo così sarete preparati all’entrata nella boutique della Tarzan Records.
La piacevole sensazione, già emanata da opere pregresse quali Era e The shipwreck bag show, torna sui nostri piatti con la nuova release Il conte Kevenhuller in black vinyl in limited edition (200 copie), prodotto di musica non convenzionale, ispirata come alla sperimentazione alternativa e in questo caso ad antiche modalità d’incisione. Il disco, forgiato dall’arte di Giovanni Succi, offre una (ri)lettura delle parole del poeta Giorgio Caproni, livornese trapiantato nella Superba ad inizio ‘900. Proprio da Genova nel 1985 riceve la cittadinanza onoraria, anno precedente all’uscita della sua ultima raccolta poetica intitolata Il conte Kevenhuller.
Proprio dalla sua poesia dissonante, parte la nuova elitaria produzione di Fabrizio Testa e Andrea Dolcino, vicini, in questa loro scelta artistica, ad una mescolanza equilibrata tra lingua popolare e colta, venata di isolamento realista e asprezza comunicativa. E chi meglio di Giovanni Succi (ahimè qui orfano di Bruno Dorella) poteva ricreare l’ambiente vocale adeguato ad un contesto nobile come questo?
L’opera da cui si parte consiste in una serie di componimenti in versi liberi, esibiti (nella loro finzione) come se si trattasse di un’operetta musicale, il cui l’allegorica caccia ad una feroce Bestia rappresenta il fulcro narrativo in cui realtà e finzione si mescolano in maniera Truffautiana. Nessun suono se non quello della profondità recitativa, che nel suo essere vintage si propone ad un ascolto attentivo ed elitario, in cui la (non)partitura ci assiste nel peso delle parole.
Un (non) disco che racconta la poesia di un epoca, capace di riscoprire sensazioni pirandelliane e surrealismo confusivo, tra punti di sospensione e raccordi lessicali in grado di vivere sulla convinzione dell’autore stesso, basata sul fatto che la poesia non dovrebbe essere stampata ma bensì incisa… e la Tarzan Records lo ha fatto.