Gioachino Rossini – Il turco in Italia, recensione.
Succede, talvolta, che il convincimento di un artista creatore non collimi col giudizio della Storia.
Michelangelo, che si considerava essenzialmente uno scultore, sarebbe diventato famoso in tutto il mondo per la Cappella Sistina; Rossini, che si considerava essenzialmente un compositore di opere serie, sarebbe stato eternato dalle sue opere buffe, e dal “Barbiere di Siviglia” in particolare.
“Il turco in Italia” fu un capolavoro e questa versione, bisogna riconoscerlo, lo presenta come tale.
Riccardo Chailly, grande direttore in altri repertori, si sposa con Rossini in maniera pressoché perfetta, coniugando quel “bello ideale” che distinse i lavori del compositore pesarese a una gestualità estremamente vitalistica, piena di joie de vivre, vibrante in ogni minimo particolare, risolvendo con estrema naturalezza e gusto il paradosso di una musica a un tempo dionisiaca e sublimata.
Uno dei luoghi privilegiati di queste congiunzioni è nel ritmo: si confronti il Coro iniziale, “Nostra patria è il mondo intero” con l’aria di Lucilla “Sento talor nell’anima” nella scena nona de “La scala di seta” (Rossini ne riutilizzò infatti il materiale nel “Turco”), ma nell’interpretazione piuttosto scialba e scolastica di Gabriele Ferro (cd Warner Fonit), e si comprenderà palesemente come il piglio di Chailly permetta a questa forza cinetica di esprimere pienamente il suo significato più alto.
E gli equilibri sonori (corroborati da una registrazione Decca come sempre impeccabile) creati fra compagine orchestrale da un lato – una Filarmonica della Scala in splendida forma – e cantanti dall’altro, permettono di gustare quella “follia organizzata” senza sacrificare né le trame contrappuntistiche, presentate con nitore, né le evoluzioni canore, lasciate fiorire liberamente.
Il belcanto, appunto. Che in questa versione può valersi di un cast verrebbe da dire: idoneo (una volta Riccardo Muti disse che la voce di Fischer-Dieskau, pur essendo sublime, non è adatta al repertorio verdiano); esemplare è il Selim di Michele Pertugi, il Geronio di Alessandro Corbelli e il Poeta di Roberto de Candia, cui si accompagnano ineccepibili il Narciso di Ramon Vargas, la Zaida di Laura Polverelli e l’Albazar di Francesco Piccoli.
Ma dove naturalmente quel belcanto trionfa e splende è nella Fiorilla di Cecilia Bartoli, qui la migliore fra tutti: difficilmente si troverà una versione dell’aria “Non si dà follia maggiore” (del primo atto) più perfetta, nell’aderenza all’intenzione poetica rossiniana prima ancora che in aspetti meramente tecnici quali il fraseggio ecc.
Inoltre, non si può tacere il fatto che questi cantanti si conformano tutti, e con coerenza, al dettato interpretativo di Chailly, senza deviazioni illogiche, senza sbavature, senza allentamenti di tensione; e che, come peraltro richiedeva l’opera buffa dell’epoca, essi mostrano anche (pur se non tutti allo stesso grado) delle notevoli capacità attoriali, in primis la Bartoli, Pertusi, Corbelli e de Candia: paradigmatico è in proposito il duetto fra Selim e Geronio “D’un bell’uso di Turchia – Se Fiorilla di vender bramate” nella scena seconda del secondo atto.