Giacchetti, Di Marco “Between two worlds”, recensione

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Ardito e coraggioso. Queste sono aggettivi che appartengono a Massimo Giacchetti e Manuela di Marco, musicisti aderenti a due galassie separate, ma in grado di comunicare attraverso sonorità inusuali, inseguendo l’irresistibile attrazione degli opposti..
All’interno di questa norma rientrano, senza troppi dubbi, le due anime del disco; da un lato la laicità moderna del sassofono, dall’altro l’organo, antico strumento sacro per eccellenza. Due mondi separati che in questi 60 abbondanti minuti irradiano la loro personalità, giocando una sfida non facile che, pur non convincendo appieno, riesce a far emergere ottimi passaggi di incontro.

Il platter offre all’ascoltatore una mescolanza di composizioni novecentesche e contemporanee, in cui l’arte e la tecnica dei due artisti ci accompagna attraverso le realtà di Andrè Lamproye, Denis Bedard e Alarich Wallner, in una sfida continua.

Un dialogo che si apre con L’hommage à Saint-Hadelin, da cui si percepisce un andamento rasserenato, ma al contempo parzialmente inquieto, forse complice il suono particolare dell’organo, che si addolcisce nel suo secondo movimento. Il disco fornisce la sensazione continuativa di buon equilibrio, sia per quanto riguarda l’aspetto emotivo, sia per il versante tecnico, assolutamente ineccepibile, come dimostrano le melodie gregoriane. Nelle sue tre parti, la composizione si avvale di un linguaggio espositivo radicato alla tradizione, rivisitata però attraverso una buona dose di genuina intraprendenza.

Il disco, di certo non facile ad un primo impatto, offre momenti maggiormente armonici come dimostrano l’ultima parte di Guy de Lyoncourt e l’incipit di Sonate I, che avrebbe potuto essere parte integrante della colonna sonora de A clockwork orange . Da qui il brano va ad evolversi in un mondo fatto di umori e movimenti, tipica rappresentazione artistica di alcune composizioni grafiche di Luzzati.

L’intensità espressiva di questi due mondi si palesa poi in Ludium III, traccia metaforica ed osservativa, appoggiata ad un mondo circostante melanconico ma piacevole, che arriva a reagire in maniera più muscolare con Dialogue di Italo Di Cioccio. Il brano arriva infatti a travalicare il colloquio continuo degli strumenti, offrendo in sei minuti intensi, all’interno di tre micro parti orientate verso un mondo dagli spunti jazz.

Dunque, poche parole e molte emozioni per definire un lavoro che, citando i Monty Python, segna la linea verso qualcosa di completamente di diverso.