George Michael – Live in london, recensione.
Tutti i grandi nomi della musica hanno sempre permesso ai fan più sfortunati, impossibilitati a partecipare ai propri concerti, di poter quantomeno recuperare alcune delle emozioni perse attraverso una qualche registrazione degli stessi. Al contrario, parallelamente alla sua rinomata ritrosia verso i tour, King George ha sempre declinato le pressanti richieste di pubblicare un dvd live, rendendo così l’attesa eufemisticamente spasmodica.
Sarà anche per questo motivo che chi ha voluto raccontarvi questo concerto londinese (Stadio di Wembley, chiusura del suo megatour mondiale), come il sottoscritto, ha provato un pizzico di (mal celata) emozione nel descrivere quanto appena “visto e sentito”. Sì, “emozione” è proprio la parola che meglio descrive la sensazione di chi, nell’ascoltare la voce di George Michael da dietro al palco (non a caso con un’acustica… Waiting), senza ancora poterne vedere il viso, percepisce la sua ansia di esibirsi davanti al pubblico di casa, dopo oltre 17 anni.
Quando finalmente sale sul palco, uscendo allo scoperto sulle note di una riarrangiatissima Fastlove (la canzone pop perfetta, tratta dal suo bellissimo e irripetibile album “Older”), il groove ed il ritmo prendono il sopravvento sul cuore e così i corpi della gente cominciano improvvisamente a ballare, senza possibilità di scampo per nessuno. Praticamente una discoteca all’aperto da oltre 80.000 persone.
Il palco contribuisce certamente al notevole impatto visivo, con una sorta di gigantesca cascata di luce e di immagini che, rispettivamente, illuminano la scena e passano a ruota sotto e sopra l’artista, letteralmente scatenato.
Da questo momento in poi inizia la carrellata inarrestabile delle canzoni che ci hanno accompagnato in questi lunghi 25 anni, rendendo la nostra vita a volte più allegra e gioiosa (I’m your man, Flawless) altre volte più pensierosa e sentimentale (Father figure, A Different Corner).
La commozione e l’empatia fra George e i suoi fan risultano evidenti e palpabili quando sullo schermo scorrono le foto di persone a lui care, scomparse in questi anni. Si tratta, fra gli altri, del suo grande amore Anselmo Feleppa, morto di aids a metà degli anni 90 e della sua amatissima madre, ai quali dedica la tristissima e strappa lacrime You have been loved. Per converso, lascia ampio spazio all’ironia quando, nel finale della prima parte del concerto, fuoriesce da sotto al palco un gigantesco pallone gonfiabile, raffigurante il buffissimo e suo omonimo Bush, con un bulldog (che rappresenta il governo inglese) attaccato alle sue parti basse, che l’artista si diverte a tirare in lungo e largo cantando “Shoot the dog”.
Dopo una breve pausa (allietata dal video di John and Elvis are dead) il gran rientro è suggellato dalla storica Faith, canzone che contribuì a lanciare il suo primo album post Wham! e che ci racconta, di fatto, l’immagine di un uomo-artista che oggi non esiste più. All’epoca rappresentava per molti solo una macchina da soldi da dare in pasto alle teenager, forse più attratte dal suo sex appeal che dall’effettivo ed indiscutibile talento musicale. Nel 2009, invece, George Michael è ormai un artista senza più alcun timore di dichiarare la propria omosessualità (al riguardo leggere attentamente il testo di “An Easier Affair”) e che almeno artisticamente non deve più dimostrare nulla a nessuno.
Tornando al concerto, definiremmo suadente la breve “jazz session” da crooner di altri tempi che apre con Feeling good e chiude con la “Stingiana” Roxanne, riprendendo in parte lo spirito di quel “Songs from the last century” nel quale – alla fine del XX secolo – aveva sfidato i vari Frank Sinatra e Tony Bennet, senza di fatto mai sfigurare.
Il climax finale comincia comunque con la splendida Amazing che è un vero e proprio inno (“celebrate the love of the one you’re with”) al carattere “taumaturgico” dell’amore con la A maiuscola.
Seguono danzereccia Fantasy (b-side dei tempi di Listen without prejudice), ma soprattutto quella Outside (cantata vestendo un’uniforme da poliziotto americano) il cui video gli comportò nientemeno che una querela (in effetti era abbastanza palese la sua volontà di sbeffeggiarlo) da parte dell’agente che lo adescò in un bagno di Los Angeles e che fu poi la causa involontaria del successivo e rocambolesco outing.
Non poteva mancare la mitica Careless Whisper, nei confronti della quale l’artista ha spesso dichiarato tanta gratitudine quanto un progressivo distacco. Certamente è la sua ballata più conosciuta e probabilmente amata, ma è anche inevitabile che, essendo così profondamente cambiata la sua vita (basti pensare al relativo video in cui rimbalzava da una hostess a una diva mozzafiato), la propone più per il pubblico che per se stesso (ed infatti in più parti dell’esecuzione si limita a farla cantare, allungando svogliatamente il microfono verso la gente).
Al contrario, l’ultimo emblematico encore non poteva che essere Freedom ’90, a richiesta dell’intero stadio urlante. A beneficio di chi non avesse mai avuto modo di “ascoltarla davvero”, ricordiamo che questo pezzo parla proprio della sua liberazione artistica da quella icona per adolescenti alla quale abbiamo già accennato prima, ma che all’inizio degli anni 90 iniziò ad stargli decisamente stretta. Il succo del testo è tutto in questa frase: “i don’t belong to you and you don’t belong to me…”, in poche parole “libertà” (…appunto).
Concludendo, siamo contenti che King George sia tornato a cantare dal vivo e ora possiamo aspettare con meno ansia il suo nuovo lavoro in studio, che il suo sito ufficiale si limita a definire “upcoming” ma che, conoscendo il “nostro pollo”, potrebbe non essere poi così imminente…Ma come lui stesso ha ammesso nelle note del suo ultimo cd, sa bene di poter contare sulla nostra incommensurabile “Patience”.