George Michael: 30 anni di musica di classe
La dimensione della grandezza di George Michael potrebbe essere descritta anche solo con il numero di milioni di dischi venduti (ben oltre i 120), Numero che ha ancor più dell’incredibile tenendo conto che dal 1987 ad oggi ha pubblicato soltanto 4 dischi di inediti, un album di standard jazz alla fine del secolo scorso e l’ultimo live con l’orchestra nel 2014. Ma la verità è che l’aspetto meramente commerciale rappresenta solo una tessera del puzzle che ha permesso a questo artista anglo cipriota di diventare una vera e propria leggenda. A renderlo tale è stata in primis la sua splendida voce, cristallina e potente come poche, capace di stupire tanto dal vivo quanto in studio e sia quando cantava le proprie canzoni che le moltissime cover, alcune delle quali indimenticabili (una su tutte: “Somebody to love”, nel Tribute a Freddie Mercury dei Queen). Altro aspetto da non sottovalutare, a mio avviso, è stato il taglio personale, a volte addirittura intimo, che ha sempre utilizzato per la scrittura delle proprie canzoni. Ogni pezzo, anche il più danzereccio e solo apparentemente banale, nascondeva in realtà una parte della sua vita, raccontata a modo suo. Quello che mi piace definire: dare un’anima al pop.
I primi anni 80, con gli Wham! furono il grande trampolino di lancio, con alcuni brani che ancora le radio trasmettono a ruota come ad esempio “Careless Whisper”, quando di sera vogliono mettere una ballata che spacchi per sensualità e per quell’inimitabile assolo di sax. In estate, poi, c’è sempre “Club Tropicana” che ritorna, evocando vacanze da sogno piene di lusso e belle donne che il video mandato in loop su MTV ci faceva sognare. Infine, quella “Last Christmas” che, nell’immaginario collettivo, è ormai diventata “la canzone di natale” per antonomasia. Il live a Wembley col quale terminò il suo sodalizio con Andrew Ridgley nel 1986, resterà nella storia di quella decade magica.
George Michael raggiunse però un successo ancora più grande come solista, sbancando addirittura il mercato americano nel 1987 con l’album “Faith”, pieno di singoli di successo come la title track e ben tre lentone, una più bella dell’altra: la dolce “Father figure”, la malinconica “One more try” e la jazzata “Kissing a fool”, tutte accomunate da grandi melodie. Quel disco fu scritto, prodotto suonato e arrangiato in quasi totale solitudine e dimostrò al mondo di che pasta era fatto quel giovane che piaceva tanto alle ragazzine di mezzo mondo. Un successo da capogiro (vinse il grammy come migliore album dell’anno) che però non gli fece perdere la via maestra e lo portò a meditare sul futuro della sua carriera.
La nuova vision era la seguente: mettere la musica al primo posto e scrollarsi di dosso questa immagine da macho, che in qualche modo ne offuscava il talento. E così George pubblica un singolo apripista intenso, ma non di facile presa (Praying for time), accompagnandolo solo da un semplice lyric video su sfondo nero, in stile “Sign of the times” di Prince, il cui testo ricordava i pezzi di Stevie Wonder e Marvin Gaye per la sua vocazione “sociale”. Esce quindi, poco dopo, il successore di Faith intitolato, non a caso, “Listen without prejudice” e lanciato da un pezzo uptempo che resterà fondamentale nella sua carriera: “Freedom ‘90” (per distinguerla dal successo omonimo ottenuto cogli Wham!). Nel video George non compare mai e riesce magicamente a mettere insieme 5 fra le top model più belle e più pagate dell’epoca (Naomi Campbell, Cindy Crawford e Linda Evangelisti, fra queste). Il testo indirizzato ai suoi fan era chiaro: “take back your picture in the frame don’t think that I’ll be back again…I just hope you understand sometimes the clothes do not make the man”.
Tutto bene, finché non si accorge che in realtà il disco, ancorché artisticamente superiore al precedente, ha però venduto molto meno e così, come Don Chisciotte, “il nostro” decide di portare in tribunale nientemeno che la Sony Music, accusandola di non aver promosso a dovere il suo album, ben sapendo che non poteva più puntare sul suo bel faccino da sbandierare. Morale della favola: dopo anni di lungaggini giudiziarie e accuse incrociate, perde la causa e deve anche pagare una cifra considerevole a chi di fatto detiene le chiavi della sua prigione artistica. Si metteranno d’accordo e il suo contratto verrà finalmente risolto, ma per sei anni (considerabili, a livello discografico, come una mini era geologica) non esce quasi nulla, a parte il succitato Ep con i Queen, i cui proventi erano per beneficienza.
La verità è che in questo lungo periodo GM s’interessa molto poco della musica perché, senza che (quasi) nessuno lo sappia, sta vivendo un dramma personale molto doloroso: il suo fidanzato brasiliano Anselmo Feleppa lotta contro l’Aids e ha i giorni contati. Quando purtroppo muore, gli crolla il mondo addosso e inizia a fare uso massiccio di cannabis per alleviare quel peso che non riesce a scrollarsi di dosso.
A maggio 1996 esce “Older”, un disco stupendo (il mio preferito, lo ammetto) ma molto oscuro, a cominciare dalla copertina e soprattutto nei testi nei quali emerge la sua personalissima elaborazione del lutto subito. Con il primo singolo “Jesus to a child” che ne aveva anticipato il lancio a fine ‘95 salutava il suo compagno con una sorta di preghiera che faceva capire al mondo intero quanto stesse soffrendo. Perfino “Fastlove” – che ritengo il suo capolavoro assoluto per la pista da ballo – in realtà parla sì del sesso senza amore e senza impegno, ma solo per cercare di colmare in qualche modo quel vuoto infinito. In pochi capirono quei riferimenti di cui quell’album era pieno (“You have been loved”), fino a quando nel ‘98 George Michael imprudentemente si fa pescare in atteggiamenti tutt’altro che equivoci da un agente di polizia americano e viene arrestato in un bagno pubblico di Los Angeles. Praticamente è costretto dagli eventi a fare outing in maniera non certo felice e coglierà presto l’occasione per rifarsi a modo suo con due canzoni contenute nel suo primo best of, intitolato ironicamente “Ladies & Gentlemen”: “Outside” (col video vestito da poliziotto) e “A moment with you” dedicata senza rancore proprio a colui che lo aveva arrestato.
Alla fine del millennio esce con l’unico disco solo di cover della sua carriera, intitolato “Songs from the last century”. È un disco certamente di passaggio che servirà ad evidenziare una volta per tutte le sue indiscusse doti di crooner alla Frank Sinatra con 8 pezzi standard e 2 cover rock adattate in chiave jazz/swing: “Roxanne” dei Police e “Miss Sarajevo” dei Passengers (vale a dire gli U2). Di inediti non se ne parlerà per altri quattro anni, ma la sua vita privata ha in qualche modo cominciato a riprendersi, incontrando Kenny Goss, un ragazzo texano con il quale inizia una nuova relazione che lo aiuterà a rimuovere parte di quella ormai radicata inquietudine.
Il disco dell’ennesimo grande ritorno esce nel 2004 e anche sta volta il titolo è più che indovinato: “Patience” (riferendosi anche alle lunghe attese dei suoi fan). Si apre proprio con la title track, che è una ballata per voce e piano e parla dell’incapacità dell’uomo di saper aspettare che i popoli più poveri sappiano in qualche modo apprendere, con i propri tempi, i principi che noi diamo oramai per scontati, come la democrazia o i diritti umani. È una condanna implicita alla politica dei leader dell’epoca, Bush e Blair, che nel video di “Shoot the dog” vengono sbeffeggiati nel relativo video cartoon. In Inghilterra e negli Stati Uniti non sarà presa bene dall’opinione pubblica e George Michael verrà fortemente criticato dalla stampa. Le più belle canzoni del nuovo album sono “Amazing”, “Flawless” e “Precious box” sul fronte pista da ballo e “American angel” (dedicata a Goss) per quanto riguarda le sue immancabili lente. La mia preferita però è “Round here” nella quale l’artista descrive la sua infanzia nei sobborghi di Londra in modo delicato, intimo e con una melodia superlativa. Forse la sua ultima grande canzone.
Infatti la sua carriera discografica, di fatto, si fermerà là e si sentirà parlare di lui per lo più per i due tour: quello del 2006/2007 per celebrare i 25 anni di carriera e quello del 2011 con orchestra al seguito (sintetizzato nella pubblicazione del suo primo e ultimo disco live “Symphonica”, nel 2014). Purtroppo le sue continue inquietudini lo porteranno di nuovo a lottare con i suoi demoni e finirà per un mese e mezzo in galera per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Questa goccia farà traboccare il vaso e anche la sua lunga relazione d’amore, dopo 15 anni, terminerà. Negli ultimi anni le cronache hanno raccontato di un uomo completamente isolato e in lotta contro l’assuefazione da cannabis (o forse altre sostanze), ma purtroppo tutto questo non ha più alcuna importanza.
Quasi come un brutto scherzo del destino, ci ha lasciati il giorno di natale che è una festa alla quale da sempre era e sarà accomunato proprio grazie a “Last Christmas”, ma che ora paradossalmente ci ricorderà anche questo triste giorno. Di lui rimarranno le sue canzoni che parlavano, spesso con ironia, della sua vita e della sua fragilità. E se di David Bowie (con la morte del quale si è aperto questo funesto 2016) non potremo dimenticare la capacità di cambiare stile, mantenendo sempre alta la qualità, di George Michael resterà indelebile il suo perfezionismo che ci ha regalato decine di canzoni che resteranno nella colonna sonora di una intera generazione.