Garada
Dietro la porta che capeggia sulla cover art non sappiamo cosa ci sia. È una porta chiusa, da cui trasudano cromatismi pronti a colorare (con le note) un mondo seppiato.
La musica è chiusa dentro oppure è chiusa fuori?
Per scoprirlo dovete accedere ed attraversare le nove stanze colorate di emozioni e groove, descritte in maniera anticipatoria dal curato booklet, attraverso visionarie e a tratti oniriche sessioni fotografiche, che donano al disco un nuovo punto di osservazione su cui ragionare durante l’ascolto.
At number 4 è la terza opera dei Garada, quintetto veronese attivo da ormai quattro lustri e dedito ad un rock puro, volto a raccogliere al di sotto dell’egida dell’adult oriented rock intuizioni in grado di armonizzare cuciture hard, glam e rock.
Ad aprire la porta posta al numero 4 è un incisivo ed evocativo incipit, disteso su onde elettroniche. Uno stampo retrò al servizio di sensazioni ambient, qui mescolate a venature psichedelic- prog che lasciano immediatamente il posto al riff iniziatico della titletrack, ben definito come anthem della band, anche grazie ad un ottimo drumset cadenzato e ad un’impeccabile vocalità, progettata per strutture acute, qui amalgamate al meglio al riffing espositivo. Una metodologia espressiva che va a porsi tra movimenti cangianti, cambi agogici e oldstyle ricco di energia, proprio come dimostra lo stile classic di Cantastorie, che riporta alla mente gli ultimi anni ’70.
Intercalando un accorto songwriting narrativo e un pattern emotivo, i Garada vanno a risvegliare il miglior rock di stampo italiano; infatti le chitarre di Piccoli e Malini si pongono, almeno nella prima parte del disco, come fulcro emozionale, ideale per cucirsi addosso la linea vocale, posta sul medesimo piano narrativo dei guitar solo che (Attenzione! Attenzione!) di certo non annoiano e non banalizzano una partitura pur ancorata a striature deja ecu.
Un esempio piacevole e godibile sembra emergere dai rimandi Rolling Stones di Riding the Sound wave, in cui l’hammond ci traina in un dolce sapore vintage. La partitura, ideale nella sua linearità, infatti, conquista sin dal primo istante, donando un essenziale spazio al basso di Mattia Ghirotti.
Se poi con Nessuna risposta, nonostante alcuni passaggi cripto Maideniani, emergono alcune perfettibili ombre legate alla invariabilità dei toni piuttosto egocentrici, è con quanto accade nella ballad Point of view che si giunge a impattare con un’impugnatura vocale diversificata, richiamo naturale al classico glam rock di fine anni ‘80. Le similitudini emotive con l’esordio di John Sebastian Bach ci conducono, infatti, verso Il tempo che ho, a mio avviso tra le migliori composizioni della band. Un brano che riesce a convogliare un’ottima sezione ritmica verso il dialogo tra chitarre, le cui corde offrono un ideale habitat alle rincorse vocali, sempre pronte giocare con il popular.
A chiudere il disco sono infine i riverberi di La mia isola, battente e cadenzata, atto anticipatorio della avvolgente Storyteller che, con sua nervatura acustica, da voce ad un’opera straordinaria, pronta ad offrire agli astanti i virtuosismi vocali di Luciana Vaona, a cui spetta l’onore e l’onere di chiudere un disco che mi fa ricredere sul rock italiano, portandomi alle emozioni post adolescenziali di quanto amavo curiosare in questo genere spesso alla deriva.