Fraulein Alice “I love you Lucilia”, recensione
È il viso di una donna a chiamarci nel mondo dei Fraulein Alice. Un viso dipinto in tecnica mista, che ricalca il primo rotoscope, mescolato ad una sorta di pop art che avrebbe colto l’attenzione di Mr Wharol, a cui si addizionano in maniera semplificata le linee dedite all’astrattismo che Giuseppe D’Alia racconta all’interno delle booklet, da cui emergono come stranite costellazioni cromatiche di un attento e continuo parallelismo binario ed ottativo.
Un apparente mescolanza di pennellate e sfumature che si raccolgono in una doppia realtà, metafora dell’alternanza tra amore e thanatos, incastonato in un rock sperimentale macchiato di blues
La band catanese, uscita da poche settimane con questo brillante debut, si ritrova sotto l’egida della SeaHorse Records, in equilibrio tra tinte nereggianti e alt rock, controllate dall’esperienza di Paolo Messere, nome alquanto noto per chi mastica Ulan Bator. Un disco attento ed accorto nel suo incedere, tra accenni noise e ottimi intarsi post, così dilatati nei tempi d’esposizione da riuscire a scattare 10 immagini accattivanti, in cui nulla è lasciato al caso .
Dalla vorticosa scelta stilistica di back-cover viene estratta è Whore or less, traccia da cui emergono fosche e primordiali tinte Cure di prima generazione, definita da passaggi elettronici che avvicinano la band al mondo caro a Tom Yorke.La struttura portante della traccia in questione si appoggia a note indie e ad una voce al servizio della partitura, viatico narrante della claustrofobia lirica. Il buon e minimale arrangiamento che ne scaturisce ha probabilmente l’intento di ricavare su di sé un aurea di genuinità che ricade però a tratti su scelte non sempre azzeccate.
Con Easy-goal-up, si ricavano poi gli intenti alternativi in cui la chitarra si raggomitola su di una sovrapposizione di layer vocali a tratti poco incisivi, a differenza del corpo centrale della canzone, matura sonorità che ci trascina in un sensibile post rock nero ed ineccepibile, atto a chiudere un anticlimax anticipatorio di Videodrome Monochrome, senza dubbio il brano migliore di questo debut. Il suo incipit magnifico tra chitarra pulita e sporco rumorismo attendono serenamente un aurea bowiana trasportata da una sezione ritmica su cui gravitano linee vocali convincenti, tra incavi sonori e riff diretti che ci fanno volare attraverso immagini monocromatiche del testo dagli influssi GSYBE.
L’onda d’urto si prolunga poi sulla track These things could happen (in a laundry), ottima partitura per la fioca voce che si posa su di un ciclico e surreale andamento di un viaggio che prosegue con il dark style di Road to Berlin, sminuzzata tra new wave-pop e il seventies style di Pah pah Bloody Blue, tanto stranita quanto rock. Una sorta di voce fuori dal coro in cui la band gioca attraverso un groove che racconta rabbia e blues-rock atto a stimolare l’ascoltatore, ora preparato al lato b di un disco interessante come dimostra What Else, vicina al mondo A toy Orchestra e Give me a name, in cui il battito cardiaco è dato da un drumming post che si fa più soffice in Ogres in Heaven, il cui sognante ipnotismo finale si accompagna con gentilezza ad una chiusura che lascia aperto il discorso artistico iniziato dal gruppo..