Francesco Guaiana Triptyque – The spoyled three, recensione.
Spesso gli autori concepiscono un’opera, o comunque un lavoro artistico, filtrando la propria esperienza di vita attraverso il proprio spirito, tentando poi di ritrasmettere al pubblico il risultato di questo processo creativo.
Il chitarrista siciliano Francesco Guaiana, a quanto spiega lui stesso, ha pensato e realizzato il suo “The Spoiled Tree” avendo come punto di riferimento ispiratore un albero vicino casa che, coerentemente con la stagione autunnale in corso, perdeva mano a mano le foglie. Parallelamente a questo impoverimento naturale, la vita regalava all’artista una crescita personale, sia a livello musicale che umano.
L’ascoltatore attento (e noi ci siamo sforzati di esserlo), effettivamente, non potrà non cogliere in questo disco il frutto di questo contrasto che ha portato – quasi in ogni pezzo – l’interessante mèlange fra la malinconia tipicamente pre-invernale ed il ritmo della voglia di uscire, andando avanti con una certa fierezza.
Quanto al suono, pur essendo dominato dallo strumento dell’artista, è guarnito da una sessione ritmica (Luca Lo Bianco al basso e Ruggero Rotolo alla batteria) che non si limita a svolgere un ruolo da semplice comprimaria, ma si ritaglia con efficacia il proprio spazio. Tale “joint venture” ci sembra particolarmente riuscita in “The Bridge”, dove, l’andamento e la modalità di esecuzione (chitarra pizzicata + contrabbasso + percussioni e gong) ci fanno pensare a una gita sulla costa greca in un giorno di primavera, quando il sole non scotta ancora e non c’è in giro l’euforia estiva della spiaggia a richiamare le folle.
Melodico e invitante l’approccio dell’iniziale “Altalena” il cui ritmo incalzante ci accompagna in un percorso ideale fatto prima di una lunga corsa e poi di una improvvisa frenata finale, come al termine di una bella e ripida discesa. Il pezzo trova il suo contraltare più meditativo nella title track; verosimilmente l’episodio che più ha risentito dell’immagine naturale ispiratrice di cui abbiamo parlato all’inizio. Due parole, infine, per il mordi e fuggi semi sperimentale – con evidenti nuances jazz – del pezzo di chiusura “Clessidra”, in quanto, a nostro avviso, ne rappresenta di fatto la miglior sintesi.