Francesco De Gregori – Per brevità chiamato Artista
Difficile avvicinarsi, anche se lo si fa in punta di piedi, a qualunque cosa (leggasi “produzione”) che esca dalle mani e dall’animo di Francesco De Gregori, difficile per molti motivi.
Il primo dei quali è che ci troviamo di fronte a parte della Storia della nostra musica d’Autore, la parte più poetica ed elegante.
Il secondo dei quali è che si rischia di inciampare, anche se non volutamente, in alcuni degli stereotipi che hanno da sempre accompagnato la sua carriera, quello dei testi “ermetici” prima di tutto (vocabolo che fa sorridere molto De Gregori ogni volta che qualche astuto giornalista gli ri-propone di nuovo, per l’ennesima volta, la stessa questione), per non parlare poi di quel po’ di “snobismo” del quale molti dei critici migliori lo accusano senza sforzarsi di intravedere in quel suo atteggiamento una giusta e sacrosanta riservatezza, per concludere con l’annosa questione del “il cantautore, e quindi De Gregori in questo specifico caso, può essere considerato un poeta?” (altra domanda che fa ridere di gusto il nostro Principe).
Il terzo ed ultimo motivo di questa breve premessa è forse quello più banale e scontato, ma non per questo meno condivisibile. Come De Gregori spesso ha tenuto a sottolineare, “delle canzoni non si può (intendendo non si deve) parlare”; come non dargli ragione nel dire che una canzone, se è bella soprattutto, ha già in sé tutte le parole necessarie a descriverla e spesso le altre, tutte le altre (quelle di chi scrive di musica soprattutto), risultano per lo più inutili.
Quindi il mio compito, fatta questa dovuta premessa, è arduo e complesso, ne sono più che cosciente.
Nonostante ciò voglio imbarcarmi in questo viaggio in mare aperto, senza bussola e senza carte nautiche, così, solo per il gusto di viaggiare e nel farlo ho deciso di portarvi con me. Questo viaggio inizia con un breve e fugace sguardo nella stiva, dove troviamo nove tracce per poco più di mezz’ora di musica, registrate a gennaio 2008, in una pausa dal fortunatissimo tour che ha visto De Gregori nei migliori teatri italiani, fare (come poteva essere il contrario) il tutto esaurito, e “presentate” con l’idea di un sito web dedicato in toto al nuovo album, www.francescodegregori.net dove potrete trovare una bella intervista, due video delle esibizioni live, una della title-track ed una di “Finestre rotte”, seconda traccia dell’album. Bene, abbiamo tutto, possiamo mollare l’ancora.
Il primo isolotto che incontriamo dopo pochi metri è grande, e stracolmo di oggetti e cianfrusaglie varie. E’ grande perché tiene in sé 40 anni di carriera, tutta una vita. Tiene in sé tutto quello che di De Gregori si ama e tutto quello che negli anni è stato detto, tutto quello che quest’uomo riservato con quell’eleganza di altri tempi è stato ed ha attraversato. Tutte le sue “ermetiche” contrapposizioni, disciolte in una serie di opposti/doppi che non vogliono creare immagini complesse e complicate (come alcuni potrebbero invece affermare) ma solo far sorridere, forse con un po’ di nostalgia. Una vera e sincera autobiografia (fantasticata, come l’ha definita lui). De Gregori apre il disco con “Per brevità chiamato artista”, e nel farlo è come se ci aprisse la porta della sua vita e ci invitasse ad entrare, così come si fa con i “Vecchi amici”.
Riprendendo il viaggio, a tendere l’orecchio ci sembra di sentire un bel po’ di swing (di quelli da ascoltare in vecchi e fumosi locali notturni di New York) a sostenere un testo che di quell’atmosfera in realtà non ha nulla; questa contrapposizione tra una musica allegrotta ed immediata e parole dirette, semplici da comprendere, ma con sensi profondi sui quali fermarsi a riflettere, creano un’ alchimia perfetta e danno vita ad uno dei più bei brani dell’album (“Finestre rotte”). Lasciandoci alle spalle lo swing e riprendendo a navigare, ci fermiamo poco dopo, perché un’immagine colpisce il nostro sguardo. Su di una piccola spiaggia, vuota stavolta, un uomo con gli occhiali e il suo classico cappello imbraccia una chitarra e ironicamente (ma poi neanche tanto) critica e sbeffeggia quel modo così idealizzato di vedere e raccontare, ancora oggi, quello che fu il ‘68 italiano. Lui che quegli anni li ha vissuti, attraversati e cantati. Lui che di quel suo essere di sinistra non ne ha mai fatto né un orgoglio da sbandierare né tanto meno un biglietto da visita per entrare in quei salotti un po’ intellettualoidi che non gli sono mai piaciuti troppo, ma solo un fatto di coscienza. E allora nel 2008, proprio a 40 anni da quel periodo, De Gregori canta la sua “Celebrazione” e canta la sua verità su quegl’anni, quei posti in cui non voler tornare “come una casa o una stazione, dove la vita ha fatto bingo tra una ferita e una mutilazione”, i salotti dove non entrare, dove “discutono di terrorismo e di fotografia” , e canta il suo desiderio di non rimanere incastrato, e soprattutto di non diventare uno dei simboli, di un periodo che purtroppo non fu fatto solo di grandi ideali da inseguire “ci sono posti dove sono stato, mi ci volevano inchiodare, ai loro anni ciechi e sordi…”.
Continuando, una dolce melodia di pianoforte fa da cornice ad uno splendido esempio (“Volavola”) di quella canzone popolare di cui De Gregori è non solo un grande estimatore ma, come abbiamo potuto ammirare nel progetto che qualche anno fa lo vide collaborare con Giovanna Marini, anche un ottimo esecutore.
Richiudendo il pianoforte, stavolta sono le chitarre e una Dylaniana armonica ad accompagnarci nel proseguo del viaggio. In “Ogni giorno di pioggia che Dio manda in terra” c’è il De Gregori più classico, con una ottima melodia che riporta alle orecchie i bei tempi andati ed un testo sicuramente all’altezza in cui il Tempo, la Strada, il Viaggio si mischiano ad un’Umanità in continuo equilibrio tra spiritualità ed incertezza.
Il primo (ed unico) punto d’arresto di questo nostro navigare è il brano n°6. Ci fermiamo e gettiamo l’ancora per un po’. Per buttare lo sguardo oltre l’orizzonte lontano del mare ed osservare piccole luci di una città in lontananza, le luci di Lione. Unico brano dell’album a non essere stato scritto da De Gregori, anzi si, ma non dal De Gregori Francesco, bensì dal De Gregori in arte Luigi Grechi (fratello maggiore di Francesco), che ha tradotto questo splendido brano di origine americana, facendone un piccolo gioiello di musica e parole. Dentro c’è una storia popolare in bilico tra sogno e realtà, uno stregone alla ricerca del suo Angelo perso nei vicoli di Lyon, c’è un viaggio in treno, c’è la religione, la sacralità ed infine la solitudine della pazzia. Mille sono i significati nascosti tra queste parole, a voi il piacere di trovarli. Un piccolo, grande, capolavoro.
Riprendiamo dopo questa piacevole pausa, il nostro cammino, ed incontriamo il brano più particolare dell’album; musicalmente, si distacca dalla linea del disco e dalle ultime produzioni di De Gregori, in maniera originale e nuova. Il testo è quello più “politico” dell’album, anche più di “Celebrazione”, di quella politica però che non parla di bandiere e non aizza il popolo verso facili rivoluzioni ma in maniera critica, intelligente ed ironica presenta il mondo nel quale viviamo (“Carne umana per colazione”).
Nel vedere in lontananza le luci della riva ci avviciniamo alla fine di questo viaggio, ad accompagnarci negli ultimi metri c’è “L’imperfetto”. E, colpa/merito di un piccolo divertissement linguistico, i verbi del testo sono tutti al tempo imperfetto; è forse il testo meno comprensibile al primo ascolto ma come nella migliore tradizione degregoriana lascia emozioni e sensazioni più nuove e profonde ad ogni ascolto successivo. E’ una serie di immagini che sembrano all’apparenza buttate là senza alcun filo logico, e questa strana sensazione di spaesamento ed estraniazione dalla storia che De Gregori ci sta raccontando, ci resta dentro fino alla fine del brano. Solo alla fine, ci accorgiamo che Francesco ha fatto avvenire di nuovo un piccolo miracolo, lasciarci dentro un’emozione, non legata ad una situazione specifica e riconoscibile, alla quale non riusciamo a dare un nome, ma della quale sentiamo comunque e forte l’intensità del profumo.
Siamo arrivati in porto e ad accoglierci in banchina c’è la poeticità e l’eleganza di uno degli Autori che tengono ad altissimi livelli la musica italiana, c’è “L’Infinito” a chiudere questo meraviglioso viaggio, c’è la bellezza autentica di archi e pianoforte, c’è la lieve malinconia di qualcosa che sta finendo, ed un testo che resterà nella produzione di De Gregori come uno dei più intensi in assoluto.
“Lascia che cada il foglio/ dove sta scritto il nome/ e metti un palio al mio dolore/ e non guardare il tempo/ il tempo non ha senso/ domani sarà tempo di cose nuove”.
A mettere un piede a terra e a voltarsi indietro un istante, si sente ancora l’eco della sua voce, che c’ha accompagnato nel nostro navigare; una voce rassicurante, un po’ ruvida, poco limpida, ma capace, allora ed oggi, di portarci in luoghi meravigliosi di cui ignoravamo l’esistenza.
“Ho viaggiato fino in fondo nella notte senza guardarci dentro/ senza sapere dove stavo andando/
e alle mie spalle il giorno si stava consumando/ ed ho provato un poco di tristezza/ ma nemmeno tanto…”