Federica Michisanti, Isk recensione
Le definizioni, come sapete, non ci stanno strette né larghe: ci piacciono pochissimo, tutto qui, ed ogni musica che viene a confermarci la loro sostanziale inutilità ci fa piacere già così, già per questo.
Qui però c’è tanto altro.
E’ una musica che per qualcuno arriverà in bilico, molto “architettata” nelle linee melodiche e nella ricerca armonica eppure, anche specificamente per come questa ricerca è stata curata, molto libera, tutto sommato abbastanza priva di schemi che non siano attenzioni compositive o riferimenti più o meno velati alla tradizione jazz.
C’è una costante volontà, punteggiata qui e lì, di formare una costruzione sonora attraverso una qualche visione di unisono, con due tra gli strumenti o tutti e tre a percorrere le stesse note, a rafforzare che si parla assieme di una cosa sola, coi musicisti che hanno anche spazi individuali ma con una sostanziale centralità del discorso concepito e portato avanti insieme, attraverso ogni brano che sembra davvero volerci dire che la musica si fa assieme anche quando si sarebbe bravi da soli.
È indicativo anche il fatto che nei brani di improvvisazione collettiva, esplicitamente dichiarati tali, la situazione si fa paradossalmente più semplice, con una fluidità maggiore anche se nulla viene tolto alla maggioranza dei pezzi che sono invece solidamente scritti e rappresentano un manifesto concreto e vivo di quel che appunto significhi stare sul pezzo, uniti, senza divismi individuali ed a servizio della musica.
Pur restando in atmosfere che concedono poco o niente alla cantabilità di un jazz più facile (il correttore ortografico suggerisce contabilità ed ha le sue ragioni), è bello che le forme e chi suonando le disegna ci portino comunque a spasso tra stili e modernità in modi e canali molto umani: Matt Renzi al sax che sa dosare la morbidezza degli attacchi e smussare così passaggi che avrebbero diversa digeribilità se resi troppo netti; al piano di Simone Maggio può capitarti di incontrare Bill Evans ma anche Monk o diverse sensibilità classiche; la leader sembra tenere particolarmente a non aver di quella leadership altro che il nome e le strutture compositive, perché per il resto sa stare al servizio del trio più di quanto chieda di fare agli altri due per lo stesso scopo (comunque ben ascoltata).
È una triotudine, questa, che si mostra apertamente: una musica fatta per tre, né di più né di meno, anche se una meno ardita scelta di aggiungere la batteria avrebbe comunque potuto dire la sua -a patto di condividere certi percorsi espliciti del progetto, che imporrebbero a piatti e tamburi grandissima misura-.
Bel lavoro, coraggioso eppure dosato, certamente non da grande pubblico eppure profondamente musicale. Continua così, Federica.