Fabrizio Testa “Morire”, recensione
Fabrizio Testa ci ha abituato ad uscire dalle righe segnate della quotidianità osservativa. Già con Mastice, il suo celato neorealismo era riuscito a ingarbugliare note e parole, proprio come accade questo nuovissimo Morire .Infatti, la nuova release, registrata tra Parigi e Milano, si propone in 100 copie numerate vestite di nera pelle, materiale primo di una esclusiva custodia morbida, all’interno della quale il disco nasconde metaforicamente le tematiche nereggianti delle sue liriche. Il packaging, realizzato a mano da Elisa Alberghi, si presenta come un perfetto traslato del suo titolo, mostrandosi nella sua più cruda verità intellettiva. E proprio dal lucido inlay si percepisce come l’opera ultima di Testa sia rappresentabile come una sorprendente e manifesta semplicità minimale, che arriva a tacere le reali risonanze poetiche dell’autore.
Il disco, realizzato in autoproduzione, offre sinergie artistiche dei grandi nomi di un underground elitario che in Morire vive attorno alla mistura artistica di Xabier Iriondo, Roberto Bertacchini, Amy Denio, Stefano Ghittoni, Federico Ciapini e Alessandro Camilletti. Le anime artistiche delle guest star si aprono alla vena creativa di Testa, il cui intro richiama l’ascoltatore nell’immediato antro oscuro di un subconscio sfiduciato e scettico ( Vorrei morire prima del tempo, lontano da tutti lontano da te ) amplificato nella sua drammaturgia dal coro degli alpini di Milano, qui diretti dal Maestro Massimo Marchesotti. La sorprendente entrata della titletrack vira poi verso la chitarra baritono di Iriondo, che in un avveduto incrocio tra minimalismo sonoro e disturbanti approcci futuristico-elettronici, si avvicina ad un disorientante post punk, in grado di accostare la voce di Bertacchini alle forme malagevoli dei CCCP più eclettici. La voce filtrata appare rinchiusa in uno stambugio armonico, in cui risuonano ridondanza e crudi pattern, mentre il nichilismo riappare sotto le sembianze di un sogno oscuro, tra delirio e follia visionaria, in cui la partenza è vissuta come punto finale, espressione bilanciata da Saranno. La traccia infatti, grazie alla voce di Camilletti, ridefinisce i contorni di Simone Cattaneo, scomodo poeta contemporaneo, morto suicida nel 2009.
A dare poi un risalto oscuro alla narrazione, è la voce di Stefano Ghittoni, che, nella sua silente cupezza di La caccia, arriva ad associarsi in maniera composita ad una docile chitarra, atta a costruire un tracciato vissuto da un interessante sdoppiamento di voci, interposte tra echi e ritorni; abili marchingegni in grado di occludere la repressa violenza di un uomo tetro. Sulla scia espressiva, infine, si incastonano alla perfezione gli arguti accordi in reverse di Il giocattolo e i ricami lirici di Terreno k, liberamente ispirato al Pupi Avati di Zeder , crudele atti di chiusura di un disco vivo ed intelligente.