Fabrizio Testa “Bestiario”, recensione
L’arte visiva dello shock è ormai da decenni una frontiera espressiva in grado di raccogliere briciole benpensanti, per poi lanciarle al vento disperdendo perbenismo e bigottismo. Un’arte che non è mancata all’animo punk di Sid Vicious, estremamente provocatorio con le sue T-shirt uncinate, come non è mai mancata alle linee estreme del mondo heavy, né tanto meno a correnti artistiche underground, che spesso valicano il punto di non ritorno con rappresentazioni fuori logica.
Un approccio ragionato, talvolta ingenuo, talvolta rivoluzionario, in grado di sconvolgere gli spettatori che sin dai tempi di Alice Cooper, tendono a ricercare in uno show, in un dipinto o in una cover art qualcosa di cui parlare o (meglio) qualcosa in cui perdersi. Un mulino emotivo pronto a dilaniare l’ordinarietà e la banalità, in cui sopravvive la libertà d’espressione che, essendo franchigia estesa, non dovrebbe incappare in stralci censori, ma al contrario dovrebbe essere fruibile con i giusti confini, senza ipocrisie e moralismi vintage.
Dunque, shockare (da sempre) rappresenta una via diretta e genuina, ma al contempo ragionata e costruita, ma sempre in grado di rapire lo sguardo dell’osservatore attento, libero anch’esso di immergersi in un opera d’arte, oppure voltarsi verso metri espressivi più orientati alla normalità, esattamente come sarà necessario fare con la copertina di Bestiario, sorprendente opera fotografica pensata Da Fabrizio Testa e realizzata da Elisa Alberghi.
Un approccio surreale e visionario che racchiude nella propria essenza l’ultimo vertice di un magico triangolo cominciato con Mastice e proseguito con Morire. Quest’ultima fatica di Testa rappresenta una viscerale escursione senza freni all’interno del rapporto (pseudo-allegorico) tra uomo e animale, in cui l’arte recitativa svincola la forma canzone, a tratti posta al servizio di testi ricchi di visionarietà novecentesca.
Ad aprire il disco è una breve introduzione recitata da Gianni Mimmo, fulcro di un riuscito ombrello introduttivo. Imbuto silente atto a trasferire le emozioni di Ivano Ferrari sulle raffinate essenze recitative, pronte a condurre il sussurrio osservativo e solingo verso la titletrack, in cui una strutturazione musicale sintetica e scarnificata introduce un beat liminare al rumorismo. Un corpo sonoro che, posto tra profondità e disarmonie, si percepisce mediante la volontà di osservare un narrato claustrofobico. L’inquieta e desolante traccia, per certi versi non troppo lontana dall’arte comunicativa di Giovannardi, sembra volersi orientare verso una ricercata elitarietà. Una struttura acuita dalla teatralità espressiva e dal violoncello di Simona Colonna, brava nel suo donare familiarità all’anima sintetica e chiusa della traccia.
Una metafora del quotidiano vivere contemporaneo, che si fa rumorismo nel primo interludio , traccia soffusa e confusa, che lascia ad occhi serrati l’ascoltatore, pronto a contemplare le immagini sonore tanto accoglienti, quanto slegate da una forma banale e attesa.
L’opera nuova di Fabrizio Testa trova poi i suoi diversificati nuclei espressivi tra le ridondanze ipnotiche di Macello, dedicata a smuovere la mente ed il corpo dell’ascoltatore, verso un impianto sonoro che usa la vocalità come elemento espressivo. Un arrangiamento minimale da cui si palesa la voce urlata e schizzata di Federico Ciappini, accento sentito di una deflagrazione straziante, che sembra rivolgersi al disorientamento Oi!
La traccia, estremamente teatralizzata, a tratti ricorda i passaggi della signorina ?Alos, proprio come accade in Purosangue, in cui l’angoscia mescolata al jazz, porta l’astante verso direzioni imprò e silenzi iper-realistici, intercalati tra i flussi di coscienza ( San Lorenzo) e melanconiche aperture alla rabbia ( IO spero che un giorno)