Era “Winter garden” , recensione

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Dopo poche settimane eccoci nuovamente a parlare di Eraldo Bernocchi, poliedrico musicista italiano, uscito da poco sul mercato per la Rare Noise Records con l’album Winter Garden.
Questa volta l’esploratore sonoro si offre artisticamente per un favolistico trio che, armato di particolari ed accattivanti sonorità, conquisterà chi è capace di intendere e volere una musica in grado di far respirare le nostre sinapsi. Per le dieci tracce vestite di alternative-ambient l’ex Sigillum S questa volta si affianca ad Harold Budd, pianista golem dell’ambient sperimentale e Robin Guthrie co-fondatoire dei Cocteu Twins.

A raccontare il principio di questa storia sono le sterpaglie sottosopra della cover art, metafora di un intreccio musicale genuino e sapiente, mescolanza curata senza gerarchie musicali evidenti, inseguendo così in maniera paritetica una buona distribuzione di note atte a contribuire un’ottima armonia da gustare a palpebre serrate.

L’album si apre con una sorta di italianizzazione di sentori Sigur Ros e un addolcimento di intenti God is an Anastronaut; immagini interposte tra motivazioni emozionali dedite a tonalità da cui prende corpo il piano di Budd appoggiato a sensazioni elettriche che diventano GSY!BE nell’incipit di Losing my breath, per poi estendersi in giochi di riverbero e dilatazioni sonore che ne fanno uno dei migliori brani dell’opera, grazie alla sua pensierosa e cupa sonorità d’oltreoceano. In un piacevole continuum narrativo si arriva poi a raccogliere i silenzi di una candida neve, raccontata dall’osservativa titletrack, in assoluto contrasto con la fast life che ognuno di noi è costretto a subire nel mondo reale. Di buona caratura appare anche Entangled, con la sue basse ed inquiete note che dipingono un acquarello musicale in maniera artistica, proprio come accade in Harmony and the play of light, assunto di post psichedelica.

Il disco sembra volerci sgombrare la testa dalle nere nubi, richiedendo però (o forse pretendendo) una partecipazione attiva dell’ascoltatore, che si ritrova trascinato in un mondo magico chiuso da South of heaven, che poco ha a che fare con Tom Araya e Dream on, che fornisce una crasi musicale capace di alimentare sentieri equilibrati ed armonici.

Un disco che però non sorprende, anche se probabilmente questo non era l’obiettivo da perseguire. Un’opera che, pur non portando con sé sviluppi realmente innovativi, riesce ad allacciare l’ascoltatore in un caldo inverno concettuale, riscendo con l’energia delle partiture a fondere tonalità cromatiche che vanno ben oltre la freddezza teorica della titletack.