Epmd – We mean businness, recensione.
Gli anni 80 ora vanno molto di moda. Si rievocano oggetti, immagini, ricordi di ogni tipo di quel decennio che per i “thirtysomething” di oggi significa adolescenza quindi il più delle volte spensieratezza. Viene rivalutata alla grande anche la musica di quel periodo e tranne qualche rara eccezione, siamo costretti a subire l’ascolto di un pop di plastica figlio del boom dei videoclip che spinsero i discografici a dare priorità all’immagine e a trascurare il suono, la cui unica funzione era di essere orecchiabile e rassicurante.
Il quadro non vuole essere esageratamente o forzatamente negativo perché è fuori di dubbio che alcuni artisti più in vista possedevano talento oltre che una bella pettinatura al punto che le qualità di qualcuno siano state oscurate da questa tendenza (un nome su tutti, quello dei Talk Talk la cui raffinata carriera spinta fino alla scoperta dello space rock è rimasta all’ombra del successo di “It’s A Shame”). Una cosa però che viene costantemente trascurata quando si parla della musica anni 80 è l’unico genere che in quel decennio ha portato un’autentica novità: l’Hip-Hop. Certamente in Italia ed in Europa l’impatto non è stato immediato e gli unici ad avere visibilità erano i Run DMC di “Walk This Way”, i Beastie Boys fino all’avvento dei Public Enemy. Nella storia universale della musica però l’Hip-Hop negli anni 80 è stato uno shock, un’inversione di tendenza, una rivoluzione. E nel periodo iniziato nel 1987 e terminato più o meno nel 1992 l’Hip-Hop ha vissuto il suo apice, la cosiddetta “golden age”. L’evoluzione delle tecniche verbali ha portato alla ribaltà i migliori rappers di sempre, veri e propri poeti di strada come Rakim, KRS One o Big Daddy Kane, accompagnati da un sound che si arricchiva dei campionamenti di funk e soul inventando uno stile assolutamente lontano dall’accomodante pop di cui sopra. Un periodo vissuto da protagonisti da un duo di Long Island, New York che fece la rivoluzione nella rivoluzione: gli EPMD.
Gli EPMD (Erick Sermon e Parrish Smith) rappavano e producevano la loro musica ma già dal loro esordio “Strictly Business” introdussero campionamenti che non solo prendevano spunto dal funk ma rendevano assolutamente FUNKY le loro canzoni. Non c’era più solo la drum-machine e James Brown, c’erano parti di tastiera, di basso, di fiati. Sono stati loro (e non il californiano Dr.Dre) a campionare per primi i suoni sintetizzati e distorti degli Zapp. Quando si sciolsero nel 1992, dopo quattro album uno più bello dell’altro, fu una sorpresa per tutti. L’Hip-Hop sembrava essere nelle loro mani, invece le rispettive carriere soliste furono mediocri e la magia sembrava persa. Anni dopo, con Erick Sermon ormai consolidato (seppure storicamente sottovalutato) produttore, gli EPMD si riuniscono, fanno un paio di buoni album a distanza di anni e sembrano appendere definitivamente appendere il microfono al chiodo con “Out Of Business” (la parola “business” è comparsa nei titoli di tutti i loro album). Invece a fine 2008 nuova sorpresa e nuova riunione: “We Mean Business”.
Abbandonata qualsiasi velleità di “grandeur” (che in realtà è sempre rimasta in secondo piano) gli EPMD registrano questo nuovo lavoro su etichetta indipendente da loro controllata e non alterano di un grammo gli ingredienti la ricetta che li ha resi ciò che sono. Produzione curata da loro stessi per il 90% dell’album, il funk è sempre potente con batterie decise e campionamenti “vintage” che non perdono un colpo. Condensata in meno di tre minuti è l’apertura di “Puttin’ Work In” dove un violento stacco di violino fa da accompagnamento alle rime dei due che sembrano decisamente in forma ma anche a un sontuoso Raekwon, il primo degli ospiti speciali. Il secondo non perde tempo ad affacciarsi ed è Havoc dei Mobb Deep che rende esaltante “What You Talkin'”, un pezzo dal beat leggermente più moderno, composto principalmente da una melodia tastieristica, semplice ma efficace. In “Roc Da Spot” gli EPMD sembrerebbero voler ricreare l’atmosfera che aveva contraddistinto uno dei loro maggiori successi, “Crossover”, campionando pesantemente gli Zapp e pur non raggiungendo i risultati che facevano saltare dalla sedia quindici anni fa, dimostrano di essere i depositari del genere e questo sembra quasi un messaggio alle nuove leve. In “Blow” invece i due si affidano ai beat del newcomer JFK, il quale sembra trovare il modo perfetto per dare ai due il modo di essere gli EPMD, con Erick Sermon che interpreta i versi migliori da anni a questa parte, PMD grezzo ed efficace come al solito ed il ritmo battente che pian piano prende e trascina. Il capitolo ospiti si arricchisce di un nome di lusso, quello di KRS One, nella maestosa “Run It”, grande esempio di pezzo Hip-Hop al meglio, beat old school, ritmo insuperabile. Una garanzia. Gli EPMD sembrano mantenere la loro storia in piedi e quindi non rinunciano nemmeno al pezzo “di famiglia” con il loro storico compare Redman, che in “Yo!” dà una classica interpretazione dei suoi ritornelli adrenalinici ma poi non smentisce il suo talento nella concretezza del suo verso. Il tutto in una base senza fronzoli, come piace ai fans del vero Hip-Hop. E se “Listen Up” è il singolo danzereccio di nuovo pieno di distorsioni vocali e campionamenti dei Zapp, la consistenza degli EPMD ritorna in “BacStabbers”, il pezzo più maturo è con un omaggio ai grandi O’Jays che lo rendono forse il momento più soul della carriera del gruppo. Altri ospiti che brillano e sembrano esaltarsi alla presenza dello storico duo sono Method Man nell’ottima “Never Defeat’ Em” e Keith Murray in “They Tell Me”. Si va verso la fine e ci si imbatte in “Left 4 Dead”, forse il miglior pezzo di “We Mean Business”, prodotto da 9th Wonder, musicista tra i migliori della nuova generazione, capace di creare un beat ipnotico, solido, minimale che esalta il massimo Erick Sermon e Parrish Smith.
Nell’arco dei 13 pezzi l’ascoltatore storico di Hip-Hop (che non può non essere fan degli EPMD) respirerà quell’aria ormai rarefatta di musica diretta, genuina, fatta di talento ed irriverenza, lontana dalle radio e dalle loro richieste, con l’asfalto che ribolle caldo e fa rimbombare i suoni dalle radio portatili. Lungo l’ascolto ci si dimentica che sono passati due decenni dalla “golden age” e che ormai si è più vicini ai 40 che ai 30. Eppure in questo nuovo album degli EPMD non c’è nulla di nuovo, di sperimentale, di sconvolgente. Ma poi ci si ferma a pensare e si realizza che in fondo è proprio questo a rendere questo ritorno così speciale.