El Thule “Zenit”, recensione
La Thule era un’isola leggendaria, fatta di terra, fuoco e ghiaccio, collocata in un estremo ed iperboreo nord, al di là del mondo conosciuto. Agli albori dei tempi essa rappresentava un certo tipo di concettualità poetica e mitologica, inizialmente portatrice di luce, ma ahimè inquinata in tempi non troppo lontani dai deliri della Gessllschaft.
Oggi la misteriosa e indefinita magia mistica di quell’isola torna nel progetto di El Thule, duo bergamasco che arriva a licenziare per la Go Down record il nuovissimo Zenit. Dodici tracce folgoranti, dirette e curate in maniera perfezionistica in ogni particolare.
Per accorgersi che nulla, ma proprio nulla, è affidato al caso, basterà godere del tratto grafico che caratterizza l’ottimo booklet, forte di una cover art minimale solo all’apparenza. Le sottotracce intratestuali e metaforiche si uniscono alla simbologia degli elementi che, con le illustrazioni, sembrano volerci portare con sé tra le polveri ingiallite di un vecchio grimorio.
Il disco si veste di una convincente aurea concept, che si unisce alla filosofia lirica in cui l’antica mitologia si fonde a magici e straniti viaggi astrali che possiedono la raffinatezza descrittiva di Asimov e la magicità filmica di Stanley Kubrick.
L’opera, arricchita di un attento e originale songwriting, è aperta da Pulsar, in cui il seme nero viene fermentato dal respiro introduttivo, dando così inizio ad un viaggio fantascientifico nella galassia dei El Thule. Infatti, il terreno sonico è dato a battesimo dagli strappi musicali vivi e mobili, definiti da un’irrisolta irrequietezza, che ci accompagna in questo fantascientifico ed astrale trip musicale, mostrando a più riprese il lato oscuro della band. I suoni riescono sin da subito a travolgere l’ascoltatore attraverso la partenza dall’ammasso globulare Omega Centauri, nella cui luce si percepisce un ben definito andamento polidirezionale da cupo riff, che ci trascina dentro il buco nero nascosto al suo interno, in un punto buio che non da conforto nè redenzione e non è certo rifugio alle paure .
Il ritmo incalzante si sdoppia sulla linea vocale di Nova Muscae, dai cui raggi gamma fuoriesce un evoluzione sonora che ci lascia sulla zona montuosa di Marte, dal cui vulcano fuoriesce la lava stoner di Tharsis, per poi focalizzare terrore e paura del Giano bifronte Fobos–Deimos, assimilabili a forme scheletriche di rock melanconico e solitario.
La band ha il merito di ricreare attorno al carico di idee, buone atmosfere diversificate, proprio come accade in Quaoar il cui cielo musicale svanisce verso una stranita e dilatata sensazione di post black. Sulla medesima linea sembra ritrovarsi La nube di Oort, dal cui ipotetico nembo sferico escono fievoli chimere, ipotizzando l’esistenza di una soglia, di una falda che inghiotte il mondo . Una visione corvina di un mondo perso, che a tratti sembra ricordare quel mondo nordico post Inner Circle.
Se poi con Titani si rincorre una metafora sonica piuttosto convincente, con Sedna l’ensemble ci porta in un’interessante e diretta ritmica timoriaca, in cui la sensazione di attesa accresce il pathos emotivo tra pelli e gentili assoli.
Il viaggio si completa poi con una Nemesi tirata e disturbante, che nella sua esplosione finale apre varchi spaziotemporali sul Monte Maat, dall’alto del quale una intro opaca e cruda lascia il vulcanico mondo per riportarsi su i temi e le armonie che con naturalezza riescono a dare coerenza artistica all’album, tra hard e digressioni stilistiche, capaci di donare il quid percepito ad un disco che di certo non si perderà nell’archivio musicale.
Tracklist:
1.Pulsar
2.Omega Centauri
3.Nova Muscae
4.Le Fiamme Di Tharsis
5.Quaoar
6.Phobos
7.Deimos
8.Sedna
9.Nemesis
10.La Nube Di Oort
11.Sul Monte Maat
12.Titano
13.Instrumental