Earth Beat Movement ” Right Road”, recensione
Una naturale mescolanza armonica tra ritmi in levare, raggamuffin, drum’n’bass e striature rap. Si chiamano Earth Beat Movement e arrivano a noi tramite la lungimirante Lunatik, pronta ad accogliere una nuova realtà interposta tra reminiscenze dub e rimandi vintage al mondo reggae.
Una sinergia di intenti atti a comprovare le idee pre-produttive attraverso metodologie espressive che, tra luci ed ombre, racchiudono brani coraggiosi e strutture ben oliate. Dodici tracce trasversali in cui l’idioma italiano (preferibile senza troppi dubbi), si alterna al talvolta perfettibile impatto anglofilo. Infatti, ad onor del vero questo piacevole debut non appare e non vuole essere perfetto. Le sbavature stilistiche e l’ingorgo di intuizioni espressive, restituiscono un album vivo e reale, che si pone mediante un approccio diretto, ma al contempo curato e ragionato del songwriting, attento a stimolare i dormienti sociali.
Tutto ha inizio con le radici reggae di Get a sense che, tra spigoli e dolcezze di una vocalità femminea ed inusuale, ci offre un ritmo cadenzato, ma non certo avvincente. Infatti il primo passo appare non troppo in linea rispetto al resto di un disco complessivamente interessante. Un segno di svolta si inizia a percepire già da Sono io, in cui back chorus e passaggi al limite del rap giungono ad un approccio easy, sino a ritrovarsi ai limiti di un mutamento con i fiati e l’espressività in levare di Make a place , traccia solare e danzante, che apre una visuale sullo scratch di Parlano di me e sull’approccio cripto dance di Bitter tears drop. Non mancano poi auree ragammaffin in stile 99 posse ( Devo dire si) né rimandi a stilemi da Grande Bellezza.
La giusta via viene poi percorsa dal featuring con Tony Moretto, ospite in Istinto, anche se l’apice espressivo lo si raggiunge con Lovely smile. Una struttura semplice e cadenzata, per cui appare impossibile rimanere fermi nell’ascoltarla. A chiudere il debut sono le percussioni scarnificate di Right road, melanconica traccia ponte, atta a traghettare l’ascoltatore sino alle onde reggae decise a raggiungere l’ ipnotico e continuativo riverbero di Bitter tears dub, in cui il sentore creativo sembra risentire della concettualità iniziatica della terminologia stessa di Dub.
Un disco che pur riportandoci verso un inevitabile passato, si mostra rafforzato da idee e costruttività, al servizio di un full lenght che partendo dall’underground potrebbe parlare ad un target più esteso di quello referenziale.