Dorian Gray “La pelle degli spiriti”, recensione
Siamo arrivati all’opera sesta. Dopo quasi 20 anni di onorata militanza nel fiorente underground italiano, i Dorian Gray sembrano voler metaforizzare il loro alterego letterario; infatti l’ensemble sembra maturare progressivamente da un punto di vista artistico, senza però perdere lo smalto iniziatico.
Fino a che qualcuno di loro non deciderà di colpire con la lama quell’artistica tela che li accompagna, saremo felicemente destinati a condividere la crescita di una tra le band più sottovalutate del nostro panorama.
In questo nuovo disco la muscolarità degli esordi lascia il posto ad un approccio più intellettivo, attraverso un profondo lavoro di songwriting, da cui, come vedremo, trapela ermetismo ed oscurità, anche mediante un incredibile ed unico lavoro di art work. Infatti, molto di rado inserisco immagini nelle mie recensioni, ma credo proprio sia necessario riportare un semplice jpg, per dare l’idea di questo prodotto. Proprio come lo erano i doppi vinili di qualche lustro addietro, il packaging di La pelle degli spiriti, rappresenta una piccola opera d’arte, che ha il dovere di essere comprata, toccata, odorata, sfogliata e gustata, contro l’abominio del cosiddetto Moving Picture Expert Group-1/2 Audio Layer 3, tristemente conosciuto con l’acronimo di MP3.
La confezione di La pelle degli spiriti, come si può capire dall’immagine ha un insolito formato e raccoglie in sé l’arte pittorica di Igort, capace di raccontare attraverso i colori e l’arte un ermetismo e un oscurità di un songwriting meticoloso e poetico.
Il disco viaggia su i binari della dolcezza pensosa e su di uno sguardo disincantato del tutto, attraverso una serie di cicatrici che la mia generazione nasconde dietro i sogni, che sono la misura della sua fragilità. Pagina dopo pagina il meraviglioso booklet racconta le sagome oscure di Auto da fe’, che si illuminano poco prima di desnudarsi nell’accogliente tragicità di un disamore di vita vissuta.
Tra leggiadria e arte poetica le timbriche si donano una sterzata con Quinto stato, in cui corde distorte e diluite giocano con sonorità forse meno convincenti di episodi come Desert storm. Quest’ultima, attraverso l’oscuro sipario, nasconde il pallore dell’attesa dell’attimo inevitabile, accompagnato da elastiche pelli ed un posato giro di chitarra, in linea perfetta con la vocalità sussurrata di Davide Catinari. Tra le poche luci e le molte ombre, speranze e dolori sono rinverdite da un’ottima enclave sonora di fiati, che anticipano la fase finale in netta antitesi alla seguente Berlino non va bene. Da qui si parte per un viaggio electro rock, volubile e spinto verso un alternative più puro. Il viaggio dei Dorian Gray nella capitale teutonica è accompagnato da uno dei migliori episodi grafici della pinacoteca, armonicamente incavata e nichilistica nonostante l’angelo wenderiano che la attraversa.
Di egregia caratura appare poi Bip, in cui una sporca e cauta chitarra attraversa una partitura slide, tra movimenti cadenzati e guitar solo 70s style, che posticipano la drammaturgia delle percussioni di Guglielmo, che incanala le energie musicali nelle sfaccettature scibili di 1.1.11 . A chiudere il disco è infine Dhyana caratterizzato da tastiere melanconiche e raffinate, che interpretano la teatralizzazione vocale impostata su di un valore futuro del nostro ignoto.
Tracce
01. Fanfara fredda
02. Auto da fè
03. Non è bellissima?
04. Quinto stato
05. Desert storm
06. Berlino non va bene
07. 1.1.11
08. Bip
09. Dhyana