Dome la muerte anc teh Diggers “Supersadobabi”, recensione

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Il reverendo è tornato, ancora una volta accompagnato dai rinnovati The Diggers (Marco Serani, Iride volpi, Giampiero Jp Palazzino), pronto a riprendersi le sonorità rock che gli appartengono, spinto dall’ardore classic rock, venato di surf, blues and western rock.

Promosso dalla Go Down Records, il quartetto torna così con Supersadobabi, nuovo album ricco di sfumature passatiste e fortemente street, in grado di raccogliere ideali crossover, spinti oltre le attese.

Il disco ha inizio sulle note rock di Nice family, in cui (immediatamente) viene a palesarsi un intenso e trasparente suono stonesiano, che, come l’opera tutta, ci catapulta dentro agli anni ’70, attraverso brani intensi e genuini.La lirica iniziale, oltre a dare sensazioni mai perdute, con i suoi stop and go e le sue enclave soniche, sembra dover qualcosa anche al mondo dei Kiss, attraverso l’uso di back voice portanti e lineari, al servizio di un cantato dalle strutture ampie e determinate. Una linea tracciata che prosegue con la convincente If you fight , veloce e sporco rock dai riflessi gli anni ’50, che ben si assesta al fianco dei ritorni seventies di Woman in Trouble, garage rock dalle linee Cooperiane.

Se poi con Sell out il blues si abbraccia a partiture ragionate, portando alla mente il sabba nero, è con Broken chains che la band raccoglie riff tanto semplici, quanto diretti, ben sostenuti da una regolarizzazione inattesa del drum set, pronto ad invitarci nel distorto vortice di chiusura di uno tra i brani più interessanti del full lenght.
La voce di Dome Marte, talvolta deliziosamente scomposta, si accartoccia poi sulle note scomposte di Little Doll (cover degli Stooges) e Your favourite obsession, splendido episodio intarsiato di rock Jaggariano. Non mancano infine spezie alt west (The shame of things to came e We’ll ride until the end ), che, tra riverberi ed effetti, giungono a rivisitare sensazioni polverose, sino a riversarsi su di un’impostazione surf curiosa è divertita.

Proprio queste percezioni d’oltreoceano ritornano nella distorsione accorta e giocosa diBad trip blues again, piccola danzante perla, che apre la via alla chiusura di un album costruito su di un solito piedistallo rock.