Depeche Mode – Sounds Of The Universe, recensione
Esistono milioni di suoni che dalle galassie giungono fino alla terra, ma quanti di questi riusciamo a percepire? Partono indistinti, quasi in sordina, finché non prendono forma per farci capire di che tipo siano. L’universo ha un suono, quale esso sia non ha tanta importanza, anche perché qualcosa sembra aver provato a dare una risposta: il synth pop.
Nato in Inghilterra, è stato portato avanti da innumerevoli band che hanno rasentato la banalità, giungendo al pop spicciolo, ma anche da altre che hanno voluto mantenere il grado di sperimentazione che ne deriva. Dalle atmosfere acustiche, alla celebrazione del nero; dalla droga, alle allucinazioni malinconiche: i Depeche Mode rimangono un capostipite della storia della musica elettronica, celebrando la loro immortalità grazie al nuovo, fresco, originale, ma non eccellente “Sounds Of The Universe”.
L’album è il quindicesimo della discografia dei Depeche Mode ed esce dopo quattro anni di distanza dal fortunato “Playing The Angel”, il quale aveva riportato alla luce, in gran stile, la band inglese con tonalità forti e testi che rasentavano la meraviglia. Qui ci troviamo di fronte a qualcosa d’innovativo che cerca di evadere dalle impostazioni schematiche della band, ma che ne risente dell’influenza del lavoro precedente a livello commerciale. L’album era già stato anticipato dalla presentazione dei due singoli “Wrong” e “Peace” e dalla preparazione delle date del “Tour Of The Universe”, che ha diffuso varie voci anche su possibili versioni alternative dell’album. Infatti è possibile acquistare il cd in versione deluxe ( cd + dvd ), B-Sides ( versioni remix e brani scartati ), cofanetto ( cd + remix + demo di alcuni brani del passato ), vinile e una versione di I-Tunes con tutti i brani possibili e immaginabili.
“Sound Of The Universe” si apre con un brano della durata di quasi sette minuti ( In Chains ), un esordio niente male, se non fosse già stato sperimentato da Bruce Springsteen nel suo ultimo album. La cosa che più sconvolge è però il “volume”: le prime cinque tracce sembrano quasi delle parti silenziose di un puzzle che sta per prendere forma, nel senso che il suono giunge notevolmente basso all’orecchio dell’ascoltatore, come se provenisse da lontano; tra questi anche il singolo di lancio “Wrong”, sicuramente non la scelta più giusta per la campagna promozionale. Infatti arrivati al brano “In Sympathy” l’album sembra iniziare realmente e suscitare interesse, poiché migliorano le canzoni, tra cui l’incantevole “Peace” e la strumentale “Spacewalker”. Altra particolarità: il “lavoro” sembra finire con il brano “Miles Away”, mentre invece i Depeche Mode decidono di fare un regalo ai loro fan: “Jezebel”, un brano interamente cantato da Martin Gore, il vero cervello dietro ai testi della band britannica. Finalmente, il tutto si chiude con l’eccentrica “Corrupt” che, dopo tre minuti e tredici di silenzio, presenta un interludio che può essere definito “Wrong ( reprise )”.
I testi, stavolta, non sono stati scritti solo da Martin Gore, ma anche da Dave Gahan, Christian Eighner e Andrew Phillpott ( “Hole To Feed”; “Come Back” e “Miles Away” ). Se, però, la parte vocale assume un aspetto nuovo, non cambia, invece, il produttore: Ben Hillier, già fortunato per aver dato fiducia al lavoro precedente.
I suoni dell’universo sono, in definitiva, bassi. Sinceramente mi aspettavo meglio dall’infinito. Non che l’album sia brutto, ma gode di una sperimentazione sonora molto particolare che poteva evolvere in qualcosa di meglio e che costituisce, quindi, nient’altro che una pausa nella carriera dei Depeche Mode. Aspettiamo il prossimo.