Debussy nell’interpretazione di M.Pollini
L’impressionismo nacque in Francia, inizialmente nell’ambito della pittura, nella seconda metà dell’ottocento, ad opera di artisti come Claude Monet (1840, 1926), Pierre-Auguste Renoir (1941, 1919), Camille Pissarro (1830, 1903). Consapevolmente, l’attenzione di questi artisti non veniva più fissata su un istante congelato, emblematico e perfetto, come nelle pitture di Vermeer o di Caravaggio.
L’impressionismo si concentrava sul divenire; sulla luce, che trascorre sulle cose e le modifica sfumandole, in un eterno cambiamento che confonde i dettagli. Il pittore impressionista non cercava più di fissare l’immagine, ma l’essenza dell’immagine: il colore prevaleva sulle leggi del disegno, nello sforzo di catturare una sensazione, una luce, una gamma cromatica.
Questa ricerca di colori e sensazioni “passò” anche nella musica, dove lo sviluppo tematico classico, basato sulla presentazione di un’idea musicale e sul suo svolgersi secondo rapporti causa-effetto ben regolamentati, fu sostituito da un’idea-sensazione eterea ed impalpabile che si comunica all’ascoltatore come una successione d’immagini legate da un filo sottile: un titolo evocativo, un particolare “colore” degli strumenti e delle masse orchestrali.
Claude Debussy (1862 – 1918) è stato il principale esponente musicale dell’Impressionismo, ma è stato prima di tutto un grande compositore. Egli dimostrò sempre di non gradire l’etichetta di Impressionista, perché come tutti i grandi si sentiva stretto nei panni che il pubblico tentava di cucirgli addosso, resta il fatto che opere orchestrali come “La Mer” e “Prélude à l’après-midi d’un faune”, o il suo melodramma “Pelléas et Melisande”, condividono con l’impressionismo qualche cosa di più di una semplice etichetta.
Anche nei suoi due libri di Preludi per pianoforte, ogni pezzo porta impressionisticamente (mi si passi il termine) un titolo che già da solo evoca spesso atmosfere rarefatte e misteriose – Danseuses de Delphes (Danzatrici di Delfi), Voiles (Veli), Ce qu’à vu le vent d’ouest (Quello che ha visto il vento dell’ovest), La cathédrale engloutie (La cattedrale inghiottita) …
Pudicamente, quanto inutilmente, Debussy pone, in partitura, il titolo al termine d’ogni pezzo invece che all’inizio, per indicare all’esecutore di non farsi troppo condizionare e di non tentare rappresentazioni esclusivamente pittoriche. Certo la tentazione è fortissima: in La cathédrale engloutie si sentono nettamente l’organo e le campane, in La sérénade interrompue si odono arpeggi di chitarre, e si potrebbe continuare…
Con i Préludes siamo comunque lontani dall’epoca dell’impressionismo pittorico, l’arte stava cambiando. Il primo libro dei preludi è del 1910 (il secondo sarà stampato nel 1913), in pittura erano gli anni di Cezanne, Matisse e soprattutto di Picasso che nel 1907 aveva completato le Demoiselles d’Avignon, mandando a gambe all’aria i canoni estetici e le convenzioni dell’arte figurativa. Tirava aria di rivoluzione anche nella musica: Schönberg si accingeva a completare i Gurrelieder e a scrivere Verklärte Nacht; Stravinsky nel 1910 avrebbe ottenuto un grande successo proprio a Parigi con il balletto L’oiseau de feu, l’anno successivo avrebbe scritto Petrouchka e, tre anni dopo, avrebbe esibito al mondo le possenti architetture della Sagra della Primavera.
Il nuovo avanzava, sarà meglio non dimenticarlo, perché Pollini lo sa benissimo.
Già, chi è Maurizio Pollini?
Nato nel 1942, vince a 18 anni il primo premio al prestigiosissimo concorso Chopin di Varsavia, è attualmente considerato uno dei massimi pianisti viventi ed uno dei maggiori del secolo.
Con un repertorio che spazia dai classici (Beethoven, Chopin, Schubert, Schumann …) ai moderni (Stravinsky, Prokofiev, Webern, Schoenberg) ai contemporanei (Boulez, Manzoni, Nono) ha lasciato e sta lasciando una traccia rilevante nella storia dell’interpretazione d’ogni opera affrontata.
Vanta, Pollini, un’estrema razionalità nell’analisi della struttura dei brani unita ad una capacità di esecuzione perfetta e spesso ‘radiografante’. Il suo approccio innovativo a composizioni anche molto conosciute, genera talvolta nell’ascoltatore un senso di spiazzamento che si risolve in genere, con la reiterazione degli ascolti, nella scoperta avvincente di una nuova via interpretativa.
Proprio in questo senso vanno ascoltati anche questi Preludi; abbiamo detto che Pollini ha ben presente in quali anni Debussy ha lavorato su queste composizioni e che cosa gli succedeva d’intorno, ed è proprio questa la chiave in cui vorrei leggere questa incisione. Una chiave che è l’esatto opposto di quanto è possibile trovare sulla Penguin Guide 2002, dove si giudica “fuori tema” l’esecuzione perché, per esempio, Ce qu’à vu le vent d’Ouest viene attaccato, dicono, “come se fosse Rachmaninov o Prokofiev”.
Quanto detto nella Penguin Guide mi sembra assolutamente vero, ma sarei piuttosto restio a ravvisare in ciò un “difetto”. La visione di Pollini è di un Debussy pienamente inserito nel mainstream del Novecento, tutta l’interpretazione è velata di razionalità, tesa a non guardare indietro raccogliendo echi romanticheggianti, ma a guardare avanti, verso gli sperimentalismi dell’arte musicale del secolo passato.
Si veda per esempio il preludio n.6: Des pas sur la neige. Debussy precisa che questo pezzo deve avere un ritmo “dal valore sonoro d’un fondo di paesaggio triste e ghiacciato”. Pollini ci mostra campi innevati, cieli bianchi e ghiaccioli scintillanti che pendono dai rami mentre attraversiamo lentamente un paesaggio innevato. È quasi una musica descrittiva, ma l’atmosfera individuata è così rarefatta da ricordare le opere per pianoforte di Webern, in particolare quelle Variazioni op.27 (1935-36) incise da Pollini nel 1972. Ben diverso è per esempio Michelangeli, che dà un’esecuzione lentissima e dolente dove si ascoltano le risonanze del pianoforte che vengono pennellate sulla tela sonora gustandole fino al limite dell’inudibile.
Nel n.7 Ce qu’à vu le vent d’Ouest; Pollini attacca effettivamente con un impeto che ricorda lo Stravinsky dei tre movimenti da “Petrouchka”, e lo porta a temine con la sua solita limpidezza dove nulla, ma proprio nulla viene perso all’ascolto. Non credo che questo sia un difetto e nemmeno che questa visione sia “fuori tema”. Certo siamo lontani dalla interpretazione di un Gieseking che lancia mulinelli di note ad una velocità impressionante, perdendo forse un po’ l’effetto descrittivo ma guadagnando certamente l’attenzione più viva dell’ascoltatore che rizza le orecchie e rimane col fiato sospeso tutto il tempo.
In altre parti Pollini traccia affreschi sonori imponenti, uno per tutti è rappresentato dal magnifico n. 10 – La cathedrale engloutie, preludio basato sull’antica leggenda bretone della città di Ys, inghiottita dal mare, in cui Pollini dà una rappresentazione dell’emersione della cattedrale dai flutti così ricca di dettaglio da far udire distintamente gli echi delle note dell’organo che si perdono sotto le volte deserte.
Insomma, lontano sia dallo stile “atletico” di Gieseking, sia dalla sensualità torbida e narcisista di Michelangeli, Pollini ci dà un Debussy non più visto attraverso le lunghe chiome e le ossessioni erotiche di Mélisande. Il Debussy dei Préludes non è, per Pollini, un maturo compositore infilato nel vicolo cieco dell’Impressionismo che guarda indietro verso tormenti romantici e fanciulle preraffaellite, ma una colonna portante del complesso edificio della musica del Novecento di cui è dato, proprio in questi Preludi, di cogliere già gli echi degli sviluppi futuri.
Chiude il cd la composizione L’isle joyeuse, opera della prima maturità ispirata, secondo una tradizione consolidata, dal quadro “Embarquement pour Cythère” di Watteau.
Questa composizione ricorda, con accenti gioiosi e solari, gli amori di Debussy per Emma Bardac, destinata a diventare la sua seconda moglie (significativo il fatto che, secondo la mitologia greca, nel mare di Citera nacque Venere). Teatro di questi amori fu l’isola di Jersey dove è stata completata, il 5 agosto 1904, questa partitura che, con le sue 255 misure, è la più ampia delle pagine per pianoforte di Debussy.
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La versione recensita è stata registrata nel giugno del 1998; le due versioni di riferimento, entrambe d’assoluto valore, sono del 1953 (Walter Gieseking – EMI), e del 1978 (Arturo Benedetti Michelangeli – DG).
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