Death – For The Whole World To See – Recensione
Cosa è lecito attendersi da un album del 1974 suonato e cantato da un trio di afro-americani nati e cresciuti a Detroit? A molti salterà in mente il magico suono della Motown, altri penseranno alle deviazioni funk di George Clinton e soci…nulla di tutto questo, qui siamo in un territorio in cui qualsiasi luogo comune viene gettato al vento e la storia della musica viene ridisegnata a suon di rock’n’roll. Qui siamo nel territorio dei Death. Di certo questo nome non dice molto, se non un netto richiamo al più macabro dei metal. Bè, bisogna riordinare le proprie idee perchè questo album di nemmeno quaranta minuti, registrato quasi in lo-fi e messo in commercio ben 25 anni dopo la sua originale realizzazione traccia elementi fondamentali del punk, del rock di protesta, di quel sound a cavallo tra Grand Funk e MC5, anch’essi glorie della Motor City ma di tutt’ altra estrazione e background.
Cominciamo col dire che questo è l’unico lavoro di questo trio, composto dai tre fratelli Hackney: David alla chitarra, Dannis alla batteria, Bobby al basso e alla voce. Ed una volta finito di ascoltare, il rammarico per l’assenza di altri dischi è grande. Raramente infatti si trova condensata in sette canzoni l’energia e la rabbia, la coscienza politica e la tecnica musicale. Un po’ come se i Clash avessero incontrato i Led Zeppelin e ci avessero messo dentro un po’ di Jimi Hendrix. E anche così dicendo, non si ha un quadro esatto di cosa sia “For The Whole World To See”. Allora andiamo per ordine.
L’album si apre con “Keep On’ Knockin’”, il cui infuocato attacco con chitarra a tutto volume e il ritmo di puro hard rock non farebbe pensare ad un testo dai risvolti sentimentali in cui addirittura si suggerisce alla ragazza di “continuare a bussare alla porta” e di tornare. Ma invece così è, e mentre il riff di chitarra è di grande pregevolezza e la batteria picchia, Bobby urla a squarciagola non per incitare alla rivolta ma per non perdere la speranza dell’amore. Si entra nell’atmosfera in maniera completa con la sensazionale “Rock’N’Roll Victim”, dove i tempi raddoppiano, la chitarra e la batteria si rincorrono e vanno a creare una colonna sonora per una guerriglia urbana che è trasversale a diversi decenni e potrebbe partire dalla Londra degli anni 60 passando per la New York degli anni 80 fino ad arrivare ad una qualsiasi metropoli nei nostri giorni. Se questo non è il top del rock’n’roll, ne è strettissimo parente. Ma i Death non sono solo adrenalina ed a dimostrarlo c’è “Let The World Turn”, il brano più lungo dell’album che fa un percorso tra hard, punk e psichedelia con grande classe. L’attacco è da ballad in piena regola e le parole accompagnano una chitarra che sembra quasi voler rimanere sobria e distante come in alcuni attacchi dei Beatles di fine anni 60. Ma man mano che il ritmo cresce e la canzone prende piede, la batteria incalza e David sembra non vedere l’ora di far esplodere la sua cinque corde ed allora la parte centrale diventa un inno al punk che si conclude prima con un vigoroso assolo di chitarra e a seguire con uno altrettanto energico di batteria. Il pezzo poi si richiude nelle atmosfere riflessive del suo inizio arrivando al finale con altri cambi di ritmo. E’ senza dubbio il cuore dell’album, il brano più complesso e forse meno d’impatto ma sicuramente in grado di far apprezzare a pieno tutte le qualità dei Death. “You’re A Prisoner”, per contrasto, è invece il brano più diretto ed immediato: ritmo tiratissimo, strumenti a volume altissimo, messaggio netto di libertà riassunto ottimamente nella frase “You can’t get by if you don’t try to change things within yourself” (non puoi farcela se non provi a cambiare le cose dentro di te) ed il ritornello che ripete ossessivamente il titolo della canzone sembra voler rivolgersi ad una generazione in trappola (per altro tristemente applicabile anche a quella odierna, ma questa è un’altra storia). Ascoltando invece “Freakin’ Out” non si può non riflettere su quanto gruppi moderni (Green Day su tutti) abbiano “succhiato” dalla musica di questo periodo. Non solo per la melodia incastonata nel frenetico ritmo punk-rock ma anche per il testo che mette a fuoco una sorta di auto-allucinazione tesa ad esorcizzare i mostri creati dalla società. Società che viene analizzata insieme ai suoi problemi in “Where Do We Go From Here?”, una domanda (dove andiamo da qui?) che avvicina il rock al funk, soprattutto grazie alla presenza più massiccia del basso e di un assolo di chitarra piuttosto sporco e “slappato”. E si arriva così al gran finale, “Politicians In My Eyes”, un pezzo dove i Death trovano il massimo equilibrio tra rumore e melodia, perfetta cornice per la genuina protesta di quello che i “politici sono ai loro occhi”, cioè nulla di buono. Due versi che trainano il pezzo verso un ritornello di quelli che entrano in testa ma anche una vigorosa parte strumentale che costituisce la metà della canzone dal sapore di jam da concerto, in cui i tre musicisti ancora una volta danno prova del loro talento.
E come succede solo poche volte dopo l’ascolto di un disco, viene voglia di spingere di nuovo play e ricominciare l’ascolto dall’inizio. Di sicuro “For The Whole World To See” non stufa mai e mentre ci si immerge nell’ascolto si dimentica presto qualsiasi dettaglio riguardante colore della pelle, provenienza e genere musicale. Si pensa soltanto che si sta ascoltando ottima musica, dall’impatto devastante e che nel 1974 non poteva che essere qualcosa di rivoluzionario. Per tutto quanto detto, questo CD non può mancare nella collezione di chiunque si dichiari appassionato di rock’n’roll. Non è mai troppo tardi perchè tutto il mondo possa vedere.