Day Breaks – Norah Jones – Recensione cd
Ci sono artisti che dopo aver pubblicato il loro disco di maggior successo, si vedono costretti a inseguirlo per una carriera intera (cito Alanis Morissette e il suo “Jagged Little Pill” fra gli esempi più calzanti). Prima magari proseguono verso una continuità stilistica, all’insegna del sacro principio: “Squadra che vince non si cambia”, poi magari si dirigono verso altre direzioni, sperimentando o comunque facendosi guidare da altri produttori. Risultato: il “boom bis” resta quasi sempre una chimera.
Norah Jones rientra certamente in questa categoria visto che ebbe la fortuna di esordire “col botto” in stile pop jazz – nel 2002 – con lo splendido “Come Away With Me”, che ne fece subito una star mondiale con milioni di dischi venduti. Si trattò certamente di un exploit straordinario, ma le mise subito notevole pressione sul futuro. Così, per la prova successiva, decise di deviare leggermente, dandole un retrogusto più country folk, con ottimi risultati commerciali e di critica, ma di gran lunga lontani da quelli raggiunti dal breakthrough album che l’aveva lanciata. Dopo un terzo disco buono, ma non straordinario, iniziò a provare venature pop più marcate (“The Fall”) fino ad arrivare a quel “Little Broken Hearts” che risale a quattro anni fa e che rappresenta il più marcato segno di discontinuità dalle sue radici.
Chi ha ascoltato in questi ultimi mesi i primi due singoli “Carry On” e “Tragedy” avrà capito che la Jones ha deciso che era ormai giunto il tempo di “tornare a casa”, nel senso che il suo pubblico desiderava fortemente un suo ritorno alle origini jazz. Nell’accontentarlo, ha deciso di tornare sotto l’ombrello della mitica etichetta Blue Note, per rendere il suo sound credibile e all’altezza delle ambizioni. Si è contornata di veri fenomeni del genere, come Wayne Shorter (sassofonista estroso ed elegante) Dr. Lonnie Smith (all’organo) e Brian Blade (alla batteria) e John Patitucci (al contrabbasso), ai quali ha saputo dare lo spazio che meritavano.
Il suono del piano, il suo strumento, è tuttavia sempre presente e comprensibilmente ha una posizione centrale quasi in ognuno dei 12 brani. Fra questi ci sono 3 cover, tutte esteticamente notevoli: la chicca autobiografica “Don’t be denied” di Neil Young (da lui eseguita solo nel live “Time fades away”), la morbida “Peace” di Horace Silver – con un grande assolo del succitato Shorter – e il gran finale “Fleurette Africaine (African flore)”, del grande Duke Ellington. Riguardo alla maggior parte delle restanti tracce si tratta di ballate notturne, con melodie sognanti che la voce di Norah Jones riesce a valorizzare al meglio.
La citata “Carry On”, ad esempio, è semplice, ma incantevole col suo incedere cullante e non è un caso che sia stata scelta come apripista del nuovo progetto. “Flipside” ha un maggior ritmo ed è uno degli episodi più riusciti, raccontando di una storia d’amore che proprio sembra incapace di decidere fra il decollo o l’addio. Quano ai riverberi iniziali della title track sono forse la cosa più vicina al succitato “The Fall” e le forniscono un piacevole effetto dark. Alla fine nessun dei brano del disco risulterà sotto la sufficienza.
Traendo le somme, non posso che confermare quanto già ampiamente emerso da questa breve recensione: chi ha amato i primi lavori della figlia di Ravi Shankar non potrà che leccarsi i baffi ascoltando “Day Breaks” (che, tra l’altro, nell’edizione deluxe propone 4 momenti live in più, fra i quali la sempreverde “Don’t know why”). Chi si attendeva, invece, un’ulteriore svolta stilistica, resterà con l’amaro in bocca e dovrà prendere atto che la forza di Norah Jones sta proprio nell’attaccamento alle sue radici. A mio avviso, questo deve averlo ben compreso anche lei stessa, mentre per quanto ci riguarda, speriamo solo che continui a questi altissimi livelli.