Daniel Karlsson Trio – Ding Dong

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Quando ti dicono che sei l’erede naturale di qualcuno l’orgoglio sale quasi sicuramente, ma con probabilità simile anche l’ingombro dello zaino da portare appresso cresce, di un peso che invece naturale non è poi tanto. Daniel Karlsson fortunatamente prosegue per fatti suoi e giustamente non sta lì a scimmiottare Esbjorn Svensson come certe malsane etichettature avrebbero potuto condannarlo a fare.

Bene così; liberi dagli ingombri proseguiamo.

Per chi come lo scrivente ebbe già a recensire il nostro ormai nove anni fa, seguendolo poi nel tempo, Karlsson non è una novità, ma questo lavoro conferma le qualità sue e dei compagni di viaggio. L’ascolto è piacevole e fluido pur attraversando momenti non sempre semplici. Nulla che sfidi a duello le convenzioni sonore degli ultimi 40 anni di musica (anzi è gradevole che tante eredità passino a trovarci durante la tracklist), ma le composizioni e la loro esecuzione cercano di non essere mainstream.

Due righe sui singoli brani:

Ding Dong armonie come gradini sui quali far arrampicare la linea melodica, che vuol restare cantabile anche se la struttura su cui poggia ne altera volutamente le linearità.
Last Tesoro progressioni iterative e un bel groove pianistico che trascina in un mood con elementi che i fanatici di certa fusion anni ottanta apprezzeranno, in evidenti rimandi che non scopiazzano ma riportano comunque alla memoria begli episodi.
Streetlight Shadows mantiene il gusto per l’iterazione ipnotica con variazioni sul tema, lungo un percorso che l’ossatura del brano sembra voler fare a piedi con chi ascolta, in attesa del prossimo angolo di strada dietro cui chissà chi si incontra.
A Man And His Umbrella torna sulle atmosfere eighties con rievocazioni stavolta anche timbriche di ambito simile a quelle di Last Tesoro, e nell’ascolto sequenziale complessivo comincia a dare un’inquadratura stilistica compiuta all’album.
Spyder’s Mam ha un tema che ne farà il brano seminale per eccellenza appena qualche eccentrico inventerà il genere musicale nordic mambo; è anche il momento dell’album in cui i tre si concedono qualche viaggetto improvvisativo in più, in un contesto che invece da questo punto di vista arriva un po’ ingessato.
Passing Fury parte con una solennità Jarrettiana (e la batteria entra ed incede a la De Johnette, confermando la percezione fino all’arrivo di una garbata elettrificazionw nei suoni); poi l’atmosfera cambia in più punti, facendosi più elegiaca e poi mutando ancora verso un jazz più d’area hard bop.

Impressioni finali: il trio suona compatto. Questi tre musicisti (Daniel Karlsson al piano, Christian Spering al contrabbasso e Fredrik Rundqvist alla batteria) sono ciascuno parte di altri progetti che riguardano diversi tipi di musica, ma stanno bene assieme, si trovano in un suono che sa essere omogeneo e parlare un dialetto omogeneo e strutturato. Ne guadagna ovviamente la coerenza anche espressiva dell’album, che tiene bene la sua durata anche per le scelte timbriche e gli equilibri. Le dinamiche sono ben gestite in una consapevolezza esecutiva che pare comune, solidamente condivisa. Volendo trovare un limite qualche momento sembra un po’ irrisolto, in una tensione che la frase pianistica ripetuta sa creare ma che non sempre arriva poi a risolvere. Avrebbero poi potuto osare un po’ di più circa l’improvvisazione, che peraltro quando c’è è interessante e non appesantita da intellettualismi.

Insomma, bel colpo per un progetto che funziona dall’inizio alla fine e sa raccontare qualcosa. Non è poco, anzi.