Curtis – Curtis Mayfield, recensione
Di luoghi comuni sugli anni 60 ne esistono fin troppi e non è certamente il caso di sottolineare per l’ennesima volta lo spirito rivoluzionario e libertino che nacque e fiorì in quel periodo. Spirito che trovò una delle sue naturali espressioni nell’arte e nello specifico nella musica dando vita a generi strettamente legati alla protesta di natura sociale. E quando si associa la musica degli anni 60 alle proteste in piazza vengono inevitabilmente alla memoria Bob Dylan, gli hippies, la psichedelia e tutti i derivati di un rock prevalentemente bianco e stralunato.
Approfondendo la storia della musica però o aprendo semplicemente occhi ed orecchie, si potrà evincere che il seme della rivoluzione sonora non era solo nella chitarra di Jerry Garcia o nelle melodie dei Jefferson Airplane. C’era una rivoluzione ancora più profonda e radicale che prendeva piede lungo gli Stati Uniti e parlava il linguaggio di chi solo lottando poteva acquisire i propri diritti basilari di esseri umano. Quei diritti che fino al 1954 in molti posti a stelle e strisce erano fuori discussione e la segregazione razziale era in pieno vigore. Chi era nero andava in fondo al bus, aveva i propri bagni pubblici, non accedeva a posti di lavoro dignitosi. Chi era nero era diverso, punto e basta. Negli anni 60 i cambiamenti non erano stati propriamente digeriti dal “middle american”. E’per questo che il James Brown che nel 1967 diceva ad alta voce di essere “nero e fiero” (“Say It Loud I’m Black and I’m Proud”) era fortemente più rivoluzionario dei capelloni californiani. Anche perché i ritmi soul e funk di James Brown facevano ballare il mondo intero e non è detto che se una musica fa ballare non possa anche far riflettere. Anzi.
Ma ancor prima di James Brown, nel 1964 c’era una voce in falsetto che descriveva la realtà sociale dal punto di vista afro-americano. Era la voce di Curtis Mayfield, allora leader del gruppo degli Impressions, la cui “Keep On Moving” è un classico spesso sottovalutato del soul. Non è un caso quindi che, raggiunta la giusta maturità artistica per affrontare quella che sarà un’indimenticabile carriera solista, Curtis Mayfield incise il suo album d’esordio sapendo mescolare in maniera eccellente i sentimenti rivoluzionari al lamento soul, senza mai trascurare la ritmica ed il groove. Siamo nel 1970, nel cuore della vivacità artistica generale, ed il disco si chiama semplicemente “Curtis”. Ed a farsi catturare bastano pochi secondi.
Il titolo del pezzo d’apertura è emblematico quanto affascinante: “(Don’t Worry) If There’s Hell Below We’re All Gonna Go” è rivoluzionaria già nel suo incipit in cui è la voce decisa di uomo ad adagiarsi su quello che sarà il minaccioso riff portante del ritmo a dirci che non importano colore e religione perché se c’è un inferno, ci andremo tutti. Ed è portando avanti questo concetto di democrazia alternativa in cui il male non fa distinzioni che parte tiratissimo il funk primordiale in cui sotto al falsetto di Curtis si fanno avanti fiati e tastiere con sontuosi arrangiamenti creando ancora una volta un pezzo in cui politica e ritmo sfrenato vanno a braccetto per sette abbondanti minuti.
E se all’entrata non riusciamo già a toglierci di dosso lo spirito del ghetto, con “The Other Side Of Town” Curtis Mayfield sembra trascinarci quasi fisicamente per quelle strade con un struggente grido di estrema sensibilità e raffinatezza in un soul splendido. E proprio mentre il clima sembra quello di dolce rivoluzione, l’artista riesce ad essere credibile spezzando il climax raggiunto e virando su una canzone romantica in cui l’amore sembra fungere da scappatoia. Si tratta della lenta e magistralmente orchestrata “The Makings Of You” che ha anche la funzione di rallentare il ritmo ed accompagnarci “We People Who Are Darker Than Blue”, una preghiera laica ed una descrizione critica senza precedenti dell’approccio degli afro-americani verso la propria razza, senza trascurare errori, speranze, sogni. Ed i sei minuti del pezzo si dividono tra la prima parte lenta e cantata e la seconda in cui esplode un funk grandioso e martellante fatto di fiati profondi e nude percussioni che ci riportano poi ad un finale dolce e speranzoso.
Il pezzo più noto dell’album è senza dubbio “Move On Up”, nove minuti dove il funk incrocia la melodia del miglior soul ed i fiati accompagnano lungo tutta la durata la saggia voce di Curtis trovando anche spazio per lunghi assoli finali mentre il sound incalza. Un cocktail irresistibile e senza tempo che infatti è spesso ripreso come accompagnamento musicale di film ambientati in quegli anni e rimane uno dei più fulgidi esempi di musica di protesta afro-americana. Ma Curtis Mayfield si dimostra abilissimo nel cambiare atmosfera e lo fa di nuovo con la successiva “Miss Black America” in cui sogni ed illusioni per il futuro si incontrano nel sottolineare la bellezza delle donne nere, elemento mai preso in considerazione in quegli anni.
La richiesta di rispetto e di “potere al popolo” cresce con il manifesto di classico soul “Wild And Free” che sembra avvicinare temi più universali e rimanda sia nei suoni che nel testo a residui degli anni 60 appena conclusi. L’album si chiude con un valzer in blues chiamato “Give It Up” nel quale Curtis Mayfield torna a parlare d’amore a suo modo, volendo cioè aprire una finestra di ottimismo in un futuro luminoso che a quei tempi sembrava molto lontano.
“Curtis” è un disco fondamentale per comprendere lo spirito che in quel periodo complesso e disperato si respirava nelle periferie dove chiunque non fosse bianco era costretto a vivere ed a sopravvivere. E lo è anche per la sua sopraffina parte musicale, fatta di maestosi arrangiamenti e superbe orchestrazioni che incontrano il funk in una delle sue forme più eleganti di sempre. Accanto a “What’s Going On” di Marvin Gaye, “Innervisions” di Stevie Wonder ed i capisaldi di James Brown, Sly e i Funkadelic, sarebbe un grave errore non affiancare questo grande classico della musica contemporanea.