Colosus “Blestem”, recensione

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Inquietante, oscuro ed avvolgente. Un disco di rara bellezza narrativa, che ha inizio proprio dalle sensazioni fuorvianti e destabilizzanti della sua cover art. Un via stretta tra due campi, che si perde in maniera inevitabile tra la morsa dell’oscurità candida di una nebbia fitta e desolante. Una spettralità magnifica, perfetta ricostruzione horrorifica, pronta a lasciare allo spettatore l’onere di interpretare i simboli anneriti, ricoperti di graffi e luci indecifrabili. Uno splendido lavoro iconografico che ci rimanda alle migliori rappresentazioni del depressive black metal.

Lo spettatore si ritroverà a camminare in piena e affliggente solitudine ai margini di quei campi grigi, privati della loro essenza. Appena valicato l’ignoto Desertaciune accoglie l’astante mediante l’utilizzo diluito ed onirico della propria struttura sonora, le cui vesti ammorbanti fungono da cappello introduttivo al percorso tetro, pensato dal project inglese. Infatti, non possiamo parlare di una vera e propria band, in quanto tutto ruota attorno ad un unico fulcro: Khrud. Il Deus ex machina (già Eye of solitude, Clouds, Deos, Sidious e God eat God) offre al lato nero idee in movimento, in grado di proferire il verbo degli stilemi tipicamente black metal, rafforzati da estremizzazioni depressive e cripto ambient, ben delineati dalla straordinarietà espressa in Mormant, lunga suite sofferente e macchiata, che porta alla mente sensazioni Lebensnacht e Xastur.

Il disco, licenziato dalla Kaotoxin Records, sembra voler seguire le sue ombre blasfemiche, pronte a virare verso passaggi ciclotimici, dettati dal battente blasting e dalla vocalità scarnificata dallo scream tipizzato, non troppo lontano dalle origini del genere. Nonostante una pulizia sonora e tratteggi di “facile” consumo, la strutturazione delle idee sembra voler raccogliere venature old school, qui alimentate da sezioni desertiche (Intuneric), in cui il necessario abbandono è aggravato dalla linea vocale assolutamente ineccepibile.

Le attenuazioni cromatiche di Blestem definiscono poi un balzo nella sofferenza; la voce accorata e tormentata si inerpica in una scoscesa collina di note fissate nel tempo, tanto da riesumare intuizioni estreme portate in auge da Abruptum. Un trait d’union con il sangue nero che sembra galleggiare sulle note ambient, pronte a tuonare tra i riffing sui generis (Dorinta). Se poi con l’oceanica struttura di La apus si delineano i lineamenti del black più puro e misantropico, l’emozionalità oscura si ritrova tra i riverberi intrinseci di Red Snow, rivisitazione della freddezza visionaria narrata dai Coldworld.
A chiudere il sipario corvino sono infine i sette minuti di Pustiu, senza troppi dubbi, tra i brani più interessanti. Il lugubre e silente approccio iniziale invita l’ascoltatore tra le braccia della perdizione, mostrandone le pieghe più recondite, atte a celare l’esplosione espositiva del suo creatore.

Un disco che sembra nascondere metodologie ed intuizioni burzumiane, arrivando ad ottenere graffi e striature di alta qualità color pece.

Track List:

1. Desertaciune
2. Mormant
3. Intuneric
4. Blestem
5. Dorinta
6. La apus
7. Red Snow
8. Pustiu