Claymords “Scum of the earth”, recensione
Un caricatore, un fucile, un lungo e nero abito di pelle che ricorda le ultime session fotografiche dei tedeschi Destruction. Dietro l’uomo corpulento che indossa l’inquietante vestito: una mattanza.
Inizia così la follia del mondo descritto dai Claymords, band norvegese dedita ad un ammaliante viaggio assestato tra insania, oscurità e durezza, vigori centripeti di 11 tracce che celano liriche misteriose, ricche di metafore espressive. Giochi stilistici ed artistici che partendo dalla disorientante numerazione in back cover, giunge ad improvvisi cambi di colorazione all’interno del booklet, palesemente al servizio di un curioso e veristico approccio estetico, pronto a calcare sull’acceleratore squilibrato, orientandosi verso un territorio seminato da malsane colture.
Infatti, ascoltando questo Scum of the hearth targato Worm Hole Death, vi ritroverete a navigare tra nuvole thrash old school, arie death e acque nere (d’altra parte arrivando da Bergen appare fisiologico un inevitabile influsso BM). L’album, opera seconda del quartetto, appare sin dal primo ascolto una release complessa e strutturata, capace di assaggiare stili divergenti, pronti ad inerpicarsi su elementi gotici. Nonostante però la poliedricità stilistica, l’ascoltatore non perde i propri labirinti, ma al contrario riesce a definire il sentiero calcato da Nils Ivar Martila, attraverso un approccio attentivo ed emozionale.
La band, rinata dalle proprie ceneri nel 2010, parte con il giusto piglio attraverso l’ottimo drumming di Crawling, che evidenzia, sin dalle prime battute, un’ottima qualità audio marchiata FinVox. I primi cambi direzionali della partitura appaiono sicuri e ben definiti, pronti ad accogliere in enclave un rimando al corposo riff iniziatico. La traccia iniziale ha senza troppi dubbi il compito di avvertire l’astante sulla direzione artistica della band, qui pronta a incamerare stilemi diversificati, proprio come dimostra il sapore black della titletrack, incastonata in un riff tipicamente thrash.
Le ipotesi compositive della band vengono costruite attorno a ridefinizioni desertiche di suoni inquieti al limite dell’orroristico (Filth), che si dipingono di nero con i pattern tenaci di True Norvegian Satan e di cannibalica arte nell’ottima Method of lies, traccia veloce in grado di riportare alla mente il primissimo Tom Araya.
Se poi alcune discutibili aperture armoniche (King of all, king of death) ed alcune eccessive concessioni gothic (Love song of hate) non convincono appieno, è con l’accoppiata Before the insanity ed Insanity Inc. che la band offre il meglio di sé. Il saluto alla follia, tema portante di molte tracce, si spinge verso una connotazione teutonica, per poi evolversi attraverso riff corposi, lungo i quali le chitarre alimentano un dialogo tra stop and go e ripartenze crude.
Un disco dunque pienamente godibile, che pur amplificando eccessive sinapsi stilistiche offre un opera articolata e volitiva.
Tracce
1 – Crawling
2 – Scum of the Earth
3 – Method of Lies
4 – Filth
5 – King of All, King of Death
6 – True Norwegian Satan
7 – Before the Insanity
8 – Insanity Inc.
9 – The Jury
10 – Art.3
11 – Lovesong of Hail