Circle time
Cecilia Sanchietti è una batterista che per ora (e speriamo di proseguire così!) ha idee e musica da far ascoltare senza cadere in due estremi molto, molto comuni ed altrettanto frequentati quando si comincia con le produzioni da leader: uno è darsi una collocazione stilistica -quando lo stile è per forza di cose quantomeno da affinare-, un canale verticale netto, un incasellamento rassicurante, e può condurre ad un prodotto completamente inutile, un surgelato, una sequela di standards o combinazioni di queste disgrazie sonore; l’altro è diretta emanazione del voler dimostrare tutto e si traduce in quei lavori pieni di qualunque cosa, con un pezzo latin fuori posto seguito da una ballad psichedelica, un assolo isterico e la panna a parte.
In entrambi i casi per chi scrive è preferibile non parlare del lavoro.
Cecilia invece azzarda un “debutto” sensato e intrinsecamente onesto; qualcosa di solido, curato, costruito ma con l’intelligenza di saper anche togliere quando serve. È piacevole sentire che lungo la tracklist si va avanti amando tante musiche diverse, magari seguendo un filo con vicinanze all’Hard Bop e al suo genitore Be, ma sapendo anche mollare la presa di genere e pescando in qualche probabile passione (afro, per esempio; possono però capitare rimandi a Coltrane, al mondo Blue Note degli anni ’60, a Bill Evans). Gaia Possenti struttura assieme al drumming il tutto, con sensibilità e morbidezza, e l’esito arriva: una musicalità certamente gradevole, non banale e ben dosata anche negli equilibri degli interventi, con la tromba di David Boato ed il sax di Davide Grottelli ad intervenire non per colmare vuoti ma quando lo spazio è liberato per loro.
Nessun difetto? E chi non ne ha, figuriamoci… Ma sì, qui e lì qualche colpo di rullante poteva essere più tenue rispetto al contesto, oppure a volte c’è qualche sensazione che si azzardi poco… ma sono levigature, considerazioni “assolute”; l’album non porta rivoluzioni musicali, verissimo, ma le eccezioni in questo senso si contano sulle dita di una mano durante un anno nel globo, per cui, chiarito che qui non si scimmiotta nessuno, siamo già ben oltre la maggioranza delle produzioni dopo aver già scartato quelle brutte.
C’è poi qualcosa che va al di là delle pure considerazioni sonore e che però conta a volte di più, perché siamo prima esseri umani e poi ascoltatori: è un progetto che arriva all’orecchio col dono dell’inclusione, che porta dentro modi e stili morbidamente, perché li si ama, li si conosce e si vuole farne uso, e non per esporli. La sensazione è di ascoltare contenuti e non contenitori. Prima ad esempio si parlava di afro, e sull’argomento il mondo musicale è strapieno di stantìe cartoline, didascalie incapaci di un racconto. Qui c’è calore ed una sorta di palpabile desiderio di condivisione.
Godetevelo.