Chavez Ravine

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Ry Cooder è una delle autentiche leggende viventi del rock perché la sua carriera ha attraversato tante fasi tutte diverse tra loro eppure tutte compiute – session-man, arrangiatore, cantautore, autore di colonne sonore, promotore e collaboratore di artisti del Terzo Mondo – cosicché ogni sua nuova avventura discografica non può che essere attesa e seguita con attenzione: ormai prossimo alle 70 primavere Ry Cooder con Chavez Ravine non ha deluso.

Chavez Ravine è anzi fulgido esempio di ciò che il rock sa essere: un’opera di storia e politica ma sempre colma di emozione. Chavez Ravine è il quartiere di Los Angeles dove da oltre 50 anni si trova lo stadio di una squadra di baseball: e il quartiere?

Il quartiere fu spazzato via dalle ruspe, i chicanos non avevano né i mezzi economici né gli appoggi politici per opporsi, così la vita di Chavez Ravine, i luoghi, i volti sopravvissero solo grazie alle fotografie scattate nel 1949 da Don Normark. Mezzo secolo dopo questo fotografo penserà di fare un documentario sulla vicenda e per le musiche si rivolgerà a Ry Cooder, ma il vecchio, grande Ry sarà così affascinato dalla vicenda – egli stesso è di L.A. – da dedicare al progetto Chavez Ravine cinque anni della sua vita e 500mila dollari di tasca sua per poterlo realizzare.

Il progetto sfocerà nel disco oggetto di questa recensione.

Un disco che narra la storia di Chavez Ravine alternando nuove canzoni di Ry Cooder che a mo’ di concept album narrano le disavventure degli ispanici che vivevano in questo quartiere, ma ad esse si affiancano canzoni d’epoca perché Chavez Ravine era una comunità viva e la comunità ispanica di Los Angeles aveva la sua musica, musica travolta dal tempo ma oggi riportata in vita da questo disco: Cooder ha ripescato il novantenne Lalo Guerrero – scomparso poco dopo la conclusione del disco – e altre star della musica ispanica dell’epoca come Little Willie G. o Ersi Arvizu, i quali contribuiscono in maniera vivissima e spesso emozionante a rendere giustizia a quei reietti.

L’album è splendido – e accompagnato da un esauriente libretto ricco di foto e testi – e se i momenti alti sono tanti lungo i suoi 70 minuti di musica forse il regalo maggiore fatto da Cooder è aver dissotterrato Chinito Chinito (di Felguerez-Diaz) registrata proprio in quel fatidico 1949 anche dal grande Don Tosti: a segnalare la canzone a Cooder è stato Mike Stoller – sì, del leggendario duo di autori Leiber-Stoller – ma Ry ha dovuto penare per trovarne una copia, ma infine ce l’ha fatta e la versione che ne presenta nell’album – con Juliette e Carla Commagere al canto – la rende un classico ritrovato per il suo incedere irresistibile e accattivante.

Come sempre con Ry Cooder la produzione in studio è stellare: da segnalare il vecchio amico Jim Keltner e l’ottimo lavoro al basso di Mike Elizondo. E questa è la ciliegina sulla torta di un disco memorabile che va da subito a piazzarsi sugli scaffali alla pari dei migliori lavori di Ry Cooder.