Cato “Cato”, recensione

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Poco prima delle meritate vacanze estive ecco a voi Cato, disco d’esordio di Roberto Picinali, onemanband che, allontanato da sé il funk-raggae dei Namastè, arriva ad un debut pop-rock semplice e genuino.

Dunque, se siete alla ricerca di sonorità particolarmente innovative.. no! Questo non è posto per voi. I Cato raccontano storie reali, in cui la ricerca del forbito e dello sperimentale non sembrano essere primaria urgenza espressiva. Nulla di desertico e psichedelico…nonostante una cover art ingannevole, ma solo pensieri liberi di viaggiare, tra striature blues, chitarre dagli accordi aperti e sensazioni narrative che ci portano verso un viaggio musicale, da ascoltare più volte per riuscirne a rapire le sfumature essenziali.

L’album, senza troppi dubbi, coinvolge gradatamente anche grazie alla collaborazione che Cato intraprende con piccoli e straordinari musicisti, pronti a donare all’autore una vitalità crescente e poliedrici punti di vista espressivi. Otto brani raccontati in modalità entratainer, modulati attraverso l’osservazione del rock anni ’90, rivisitato da esperienza e coraggio.

Ad aprire lo sguardo sul mondo illustrato è il drumming di Stefano Guidi, efficiente nel calibrare in maniera dosata il pattern diretto e piacevole del fuoco narrativo. Una semplice via pop-indie impreziosita dai controcanti di Dylan Imberti e Luisa Bortolotti, pronti a dare spessore al tracciato aperto e solare che mostra il suo lato più osservativo con Mario. La traccia, dinoccolata e piacevolmente sfumata, offre con il sax di Mauro Donini un curioso sapore vintage, addomesticato dall’impronta semi acustica della sei corde. Una sorta di climax narrativo che sfocia su tracciati armonici come Veloce e Luna. Di ottimo impatto appaiono poi i passaggi di Confusione, tirato rock sincopato, in cui i silenzi e le stoppate offrono lo spazio espressivo ideale per il flauto prog, da cui si parte per delineare un tappeto sonoro attrattivo, quanto il guitar solo in classic style.
Meritevole di citazione è infine anche Man8, traccia strumentale, in cui la chitarra offre il proprio ego al background percussivo, ed in cui le dita corrono tra i tasti in una luminosa narrazione abile nel portare alla mente alcuni passaggi de Il Pan Del Diavolo.

Insomma…un disco che, tra alti e bassi, delinea un sentiero solare e senza troppi ornamenti, specchio del sentiero intrapreso da Cato, pronto a varcare i confini dell’ovvietà, proprio come dimostra la curiosa e conclusiva Princess.