Born and Raised – John Mayer – recensione cd
John Mayer è un nome che a molti italiani dirà molto poco.
In verità, chi già lo ama, lo adora letteralmente, considerandolo un fenomeno, sia per il talento innato con la chitarra (memorabile il suo strumentale di Human Nature ai funerali di Jako) sia per l’orecchio che dimostra di avere nello scrivere sempre il refrain azzeccato. Inoltre, e il che non guasta mai, non passa inosservato quel suo viso da bravo ragazzo che si porta dietro, con un sorriso che stende le migliaia di fan sparse per il mondo.
Dopo aver approfondito il suo lato più pop/rock (lo sbalorditivo disco d’esordio “Rooms for square” e l’ultimo “Battle Studies”) e a volte un po’ blues (specialmente con il side project “Trio”) con questo “Born and raised” suona subito evidente che la nuova deriva si è spostata verso un folk fatto di steel guitars e chitarre acustiche, che troverete praticamente in ogni pezzo.
Essendo un amante del genere, personalmente non posso che apprezzare di cuore la mossa artistica, ma guardandola con l’occhio più “da critico” ammetto che non servirà di certo al nostro John a farlo evadere (sempre che lo desideri veramente) dai confini nazionali nei quali sostanzialmente è relegato, a livello strettamente commerciale.
Peccato, perché di bocconi prelibati il suo album ne offre parecchi, a cominciare dall’iniziale “Queen of California” che attinge a piene mani dalla più gloriosa tradizione country statunitense dei vari James Taylor & C. e si candida come colonna sonora on the road per i prossimi mesi che ci porteranno dritti diritti fino al caldo dell’estate. Il sound della chitarra elettrica rievoca piuttosto il Mark Knopfler più brillante di “Strees of Philadelphia” e “Golden heart”.
Di John Mayer ho sempre apprezzato particolarmente le ballate, sia mid che low tempo, ed anche in questa occasione non delude le attese, sia per il numero (ce ne sono tante!) che per la qualità. In particolare fra quelle dal ritmo più andante spicca il singolo “Shadow days” che parla del superamento di un periodo triste della sua vita, mentre fra i “lentoni” certamente “Whiskey whiskey whiskey” contenderà alla sua vecchia perla acustica “Stop this train” (da “Continuum”) la prima posizione nei cuori dei fan più romantici. La melodia sinuosa, la malinconica solitudine che richiama nel testo chiaramente ispirato al problema degli alcolisti e la sua voce cristallina contribuiscono a renderlo un brano veramente speciale, impreziosito da un’incantevole armonica, degna del più intrigante Neil Young (ma in fin dei conti anche del Boss di “Devils & dust”, se volete).
Ma a ben vedere (o meglio…ad ascoltare) i pezzi da citare non sono affatto finiti: sognante la tromba nell’intro della ottima “Walt Grace’s submarine test…”, così come degne di nota risultano “Love is a verb”, da ballo della mattonella “di una volta”, e la accattivante title track, fra le gemme più preziose del disco.
Insomma, se ancora non avete deciso dove andare in vacanza, quest’anno vi consiglio di partire per gli States, noleggiare una bella Chevrolet dotata di ottimo stereo e percorrere la vecchia Route 66 con a bordo qualche disco degli Eagles o del già citato Taylor per alternarli ogni tanto a “Born & raised”; state certi che vi sembrerà di esser nati Texani. Visti i tempi di crisi, per chi non potesse andarci… basterà un i-pod e un po’ di immaginazione…e la Death Valley vi sembrerà veramente a due passi.