Blaq Poet – Blaqprint. Recensione.
“No frills”si dice in inglese per indicare qualcosa di essenziale, che non si affida al superfluo, che sostanzialmente bada al sodo. Spesso può essere sinonimo di sciatteria o di poca raffinatezza, altre volte può voler dire essere concreti, diretti, centrare il punto. In quest’ultima definizione si ritrovano quei rapper e quei produttori Hip-Hop che ben si guardano dalle nuove tendenze, quelle fatte per imbuonirsi e conquistare il grande pubblico. “No frills is a way of life”, un modo di vivere, di concepire questa musica senza voler diventare rockstar tutte paillette e camicie colorate. C’è l’essenza della strada, ci sono i suoni che ricordano i posti dove l’Hip-Hop è nato e cresciuto, quei posti che l’industria ha provato in tutti i modi a cancellare facendoci credere che in questo modo “la musica evolve”. A quest’imbastardimento fortunatamente c’è ancora qualcuno che si contrappone proponendo Hip-Hop di qualità, dando dimostrazione che ancora si può interpretare questa musica in maniera “classica” senza risultare ripetitvi. Un nome? Blaq Poet.
Blaq Poet è un veterano silenzioso, di quelli che nel suo quartiere è un re da vent’anni ma che fuori dai confini della propria città (che poi è New York) quasi nessuno conosceva. Questo almeno fino a qualche anno fa, quando DJ Premier ha contribuito in maniera decisiva alla produzione dell’album d’esordio del suo gruppo, gli Screwball, che è e rimane uno dei migliori dischi dell’Hip-Hop cosiddetto “underground” di questo nuovo millennio. Crudo come da tradizione del Queens, molto legato a persone e vicende delle proprie strade, Blaq Poet ha nel tempo stabilito un rapporto professionale con Premier che è andato oltre l’occasionale collaborazione, tant’è vero che è ormai uno dei nomi di punta dell’etichetta del DJ e produttore dei Gang Starr, la Year Round Records, per la quale esce il suo album d’esordio da solista, “The Blaqprint”.
Per chi ascolta Hip-Hop da tempo e soprattutto per chi ne ha una visione classica, è inutile sottolineare che la presenza di Premier in cabina di produzione è una garanzia di un certo tipo di suono. Decisamente il dj di origine texana è uno dei pochi a tradurre in suono il significato dell’Hip-Hop, con quelle che sembrano basi semplici e scontate ma che invece nascondono campionamenti oscuri di artisti di qualsiasi genere e provenienza, del quale anche il minimo particolare diventa funzionale per rendere ogni traccia una vera e propria bomba. Quindi Blaq Poet è sicuramente privilegiato perchè ben 14 tracce su 16 di “The Blaqprint” sono opera del suo uomo di fiducia. Ma l’mc ci mette del suo, con tecnica, stile e tono di voce grandioso, una via di mezzo tra Kool G. Rap e Freddie Foxxx, per un’ora abbondante di incredibile intensità.
L’album, che non ha nè introduzioni nè intermezzi (tutta sostanza, si diceva appunto) si apre con il primo singolo, “Ain’t Nothin’ Changed”, classica base di Premier con campionamento stile “scampanellata” nello stacco tra i versi e ritmo serrato ma allo stesso tempo quasi ballabile, dominato da Blaq Poet che ci dà il benvenuto tra le strade del Queens facendocene respirare il clima, che può essere allo stesso tempo pesante e gaudente. La parte pesante emerge sicuramente in “Don’t Give A Fucc”, nella quale vengono descritti gli effetti di una vita in cui si assiste ogni giorno a scene di violenza, omicidi ed esplosioni di armi da fuoco in un’atmosfera da film gangster creata da Premier tramite frammenti di basso, organo e fiati. Di tutt’altra atmosfera si vive in “Hate”, testo che parla dell’odio inteso come invidia e gelosia verso che ci l’ha fatta a realizzarsi, mettendo a fuoco l’assenza di unione nella comunità e il freno che tutto ciò mette alle possibilità di uscire dal ghetto. Ospite del pezzo è Noreaga che sembra rigenerato dopo una lunga assenza ed è proprio lui ad aprire la strada a Blaq Poet, interprete di due versi di fuoco. Premier qui dà il meglio e si scatena con gli scratch ed i campionamenti nello stacco. Tesissima è “Hood Crazy”, sorretta da un riff di piano dai toni molto bassi che permettono a BP di descrivere i pericoli del ghetto e di avvisare potenziali ammiratori “borghesi” di stare alla larga. Poi ci sono pezzi come “I-Gititin” che sono perle assolute, base lenta e quasi nostalgica e rap autoreferenziale che per gli ascoltatori casuali vuol dire poco ma per chi è cresciuto con questa musica è da brividi. Non mancano collaborazioni di famiglia, come in “Legendary” e “Rap Addiction” dove membri di M.O.P e degli NYG’z si alternano al microfono per rap classici e tributi alla propria cultura con basi sempre adeguate al caso, oppure ci si può affidare a “Stretch Marks & Cigarettes” dove oltre a Pancho degli NYG’z al microfono c’è la giovane Imani Montana per un pezzo “da festa”, ovviamente sempre concepito in maniera hardcore. Le orecchie vibrano positivamente ad ogni pezzo, che sia la tranciante “S.O.S” fino alla notturna “U Fucc’d Up” e ci si può persino commuovere come nel caso di “Never Goodbye”, pezzo dedicato alle persone care che non ci sono più o in parte rilassare ascoltando il ritmo più tranquillo di “Situations”.
Certamente “The Blaqprint” non è un album per chi non sopporta l’Hip-Hop. Non c’è assolutamente nulla che possa avvicinare qualcuno non abituato a tali ascolti a questa musica. Ed è proprio quello che viene naturale a Blaq Poet, poco curante del mercato e delle classifiche, ancor meno della fama. Quello che conta è fare al meglio la musica con cui è cresciuto, dando il modo all’ascoltare di immergersi nel sound e dimenticarsi di tutto il resto. Ed è grazie ai suoi versi ed alla produzione di DJ Premier che “The Blaqprint” è un serio candidato a miglior disco Hip-Hop dell’anno. Ma è più che certo che non vincerà nessun grammy award…