Blackstar – David Bowie
Immagino di essere su uno dei tanti pianeti immaginari….diciamo di Guerre Stellari (visto che siamo in periodo di revival della saga).
In un locale, pieno di extraterresti seduti ai tavoli che parlano e mangiano, c’è una tenue penombra, con il fumo di sigaretta che annebbia l’aria. Nel buio s’intravede sullo sfondo un gruppo di musicisti, i cui volti sono scuri e sconosciuti, che sta suonando una musica jazz stravagante, mai sentita prima. Intrattengono gli avventori con improvvisazioni a base di dosi massicce di fiati, sui quali si distingue soprattutto il suono di un sax. È di un mostro particolarmente virtuoso, chiamato Donny McCaslin che viene da un satellite amico, chiamato California. A un certo punto nella sala entra uno che sembra un uomo, ma in realtà è un alieno e anche lui viene da molto lontano: il suo nome è Ziggy. Erano oltre 40 anni che non entrava per bere qualcosa e per parlare con qualcuno dello spazio (“Space Oddity”) o delle stelle (“Starman”), ma gli era tornata la voglia di astrazione. Appena sente questa musica così attraente, apre la sua borsa di pelle nera e tira fuori tutto il suo talento, la sua esperienza navigata nel mischiare l’elettronica agli strumenti tradizionali, la sua voglia di spiazzare – che è l’unica ragione che lo ha fatto tornare lì – e inizia a cantare unendosi al gruppo, senza dire una parola. Infatti, loro lo aspettavano già e sapevano che, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ziggy vuole ancora una volta creare qualcosa che lasci il segno, senza dilungarsi troppo e senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al pubblico al quale appena tre anni fa ha già regalato, dopo ben due lustri di silenzio, proprio ciò che da lui si aspettava (“The next day”). Da quella session escono fuori cinque pezzi nuovi dal mood piuttosto inquietante, a volte spettrale, nel contempo cambiano il vestito a due brani già editi: “Sue, or in a season of crime” e “Tis a pity she was a whore”, adattandoli al nuovo contesto. Un po’ poco? Forse sì ma solo perché, quando la qualità è così alta, si diventa avidi e se ne desidera ancora. Fra il pubblico c’è chi applaude comunque gridando: “il Duca bianco (questo il nomignolo di quell’alieno dagli occhi così diversi) è tornato…ascoltiamolo senza sforzarci troppo di capire, fidiamoci di lui!”. Qualcun altro – pochi in verità – pensa che la sperimentazione, spesso sia fine a se stessa e perciò mugugna. In realtà a certi artisti, che ormai non hanno più nulla da dover dimostrare, non interessa proprio nulla di ciò che si dirà o penserà della loro opera o se magari qualcuno la catalogherà come un EP. E vanno avanti per la loro strada. Ma la ragione è dalla loro parte, a mio avviso, quando riescono a mettere sul piatto canzoni come l’apripista “Blackstar” che, in quasi 10 minuti, attraversa mille e uno generi musicali, senza mai farsi ingabbiare in una definizione univoca. L’atmosfera apocalittica del video sembra legare il pezzo, dal testo a dir poco ermetico, a tutto ciò che c’è di oscuro nelle religioni (più attuale di così?), ma la verità è che nessuno veramente sa di cosa parli, a parte l’autore stesso.
L’interpretazione di David Bowie (beh sì l’avrete capito, ormai, che parliamo di lui….) è da oscar, proprio come nel singolo successivo “Lazarus” in cui interpreta un uomo, completamente bendato e su un letto d’ospedale, che ha innumerevoli allucinazioni relative al suo vissuto in manicomio. Fa rabbrividire, nonostante il suo incedere lento, dal ritmo scandito e tagliente come la lametta di un rasoio. Non ho voglia di tediarvi descrivendo nei dettagli ogni pezzo di questo album in modo didascalico, nonostante il loro numero esiguo lo suggerirebbe e mi limito a indicare Dollar days come il suo pezzo più accessibile. Il suo capolavoro. La sua perla più preziosa dall’ approccio melodico straripante, che non rinuncia però a seguire il filo conduttore del concept: angosciare ma non impaurire, stupire ma mai lasciare da parte l’estetica.
Blackstar è un discone per chi ha amato LP molto diversi da questo, come “Pornography” dei Cure o “Gone to earth” di David Sylvian, che in qualche modo hanno lo stesso spirito cupo nel dna. Non è per tutti questo è sicuro, ma chi s’innamorerà di lui lo ascolterà al freddo, nella nebbia e possibilmente con poca, pochissima luce. Io l’ho già fatto e lo adoro già.
PS: ho scritto questa recensione prima della morte di Bowie….penso che sarebbe stata molto diversa se la scrivessi ora o la modificassi….ergo ho deciso di non toccarla lo stesso. Ma è evidente che la battaglia umana che David ha combattuto in 18 mesi contro il cancro diventa la chiave di lettura di tutto il disco….la stella nera (“in the day of execution”…..dice il brano)….verosimilmente…..è lui stesso! Tutta quell’angoscia che emerge dal disco….aveva una fonte ma solo lui la conosceva. Ora lo sappiamo anche noi purtroppo.