Black Moon – Enta Da Stage

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Regola numero uno: essere se stessi. Regola numero due: tirare fuori il proprio talento senza snaturarlo per renderlo più appetibile. Regola numero tre: badare alla qualità dall’inizio alla fine. Se queste regole fossero state seguite, l’Hip-Hop oggi sarebbe probabilmente ancora la musica “di rottura” per antonomasia, invece di ritrovarsi nel piatto misto e dispersivo del business dell’intrattenimento globale. Di sicuro sarebbe avremmo sentito meno jingle e visto meno video ma è un prezzo che in molti appassionati avrebbero pagato volentieri pur di poter accogliere una maggiore creatività.

A New York nei primi anni 90 quelle regole erano la legge anche perchè sgararle avrebbe significato perdere il rispetto che all’epoca era ben più importante del denaro. Andare alla ricerca di influenze pop era una tendenza che sarebbe nata solo qualche anno dopo ed in giro si respirava ovunque l’aria delle strade, quella fatta di rime ricercate e musica grezza e veloce. Brooklyn era il quartiere più in voga, riportato in auge dal successo di Notorious B.I.G. ma anche da nomi più underground come Jeru The Damaja, M.O.P e Black Moon.

Questi ultimi, guidati dall’mc Buckshot e dal team di produzione dei Beatminerz facente capo a DJ Evil Dee e Mr. Walt, possono considerarsi una perla scura nella mappa dell’Hip-Hop. Essenziali come pochi, riescono a fondere in un colpo solo il lato “roughneck” con l’anima del suono più caldo e viscerale. “Enta Da Stage” è il loro esordio di una carriera che è stata meno produttiva di quanto si potesse sperare, a causa anche di un periodo di separazione che non ha portato a nulla. Ma il livello della qualità è sempre stato mantenuto alto, partendo dal loro classico primo album.

Il lavoro sembra seguire un percorso in maniera del tutto naturale, partendo dapprima con la cupa e minimale “Powaful Impak!”, dettata da una brulla batteria e da un campionamento vocale di Busta Rhymes e con l’irruzione al microfono di Buckshot in puro rap di strada, quasi per mostrare il suo stile al mondo, riuscendo a conquistarsi sempre più spazio ad ogni infettivo ascolto. Ma è soltanto l’inizio ed infatti la fiducia sembra già crescere nel successivo “Niguz Talk Shit”, pezzo da concerto se ce n’è uno, soprattutto grazie al coro gridato che farebbe – ancora oggi – muovere tranquillamente le folle. Nel pezzo si introduce al pubblico l’altro rapper del gruppo, 5FT, che funge da perfetta spalla al folletto Buckshot. Il pezzo numero 3 è un pezzo di storia della musica, quel “Who Got Da Props?” la cui base, semplice ma impossibile da non avere impressa in mente, è costruita intorno ad un giro di basso e tante incursioni jazzate che vanno ad arricchire la potentissima batteria e lo scratch del ritornello. I versi sono perfetti, assolutamente lontani dal voler essere scientifici o intellettuali ma di una fluidità e di un’intensità straordinarie. Caratteristiche che si continuano a riscontrare ad ogni traccia che si incontra, dalla tecnica accurata di “Act Like You Want It”, arricchita da un ipnotico hook, alla notturna “Buck’Em Down” passando per la primordiale “Make Munne”.

Poi ci sono assoluti picchi di adrenalina come la collaborazione con i Smif-N-Wessun in “Black Smif-N-Wessun”, un condensato di Hip-Hop rappresentato da un attacco violento di rime e di versi uno dopo l’altro in cui i quattro mc’s sembrano tirar fuori tutta la loro rabbia. In questo caso basta poco per esaltare il tutto, una batteria grezza, qualche campionamento di archi, un coro che fa scuotere la testa e soprattutto un po’ di ragamuffin che aggiunge un tocco di follia all’atmosfera.

Per rimanere nel campo dei classici impossibile non citare i due singoli “I Got Cha Opin” e “How Many MC’s”. Il primo si avvale di una forte componente jazz per via di un basso talmente pompato da sembrare live e parecchi campionamenti di fiati a fare da contrasto alla ruvidità delle rime. Il secondo è quasi un modo per rompere gli equilibri abbassando il ritmo, basandosi su un ritmo lento e morboso con quel tocco in più dato dal campionamento di KRS-One e soprattutto dalle rime che con calma devastano ed entrano nella testa di ognuno di noi. Uno dei pezzi più Hip-Hop della storia, se questa definizione può significare qualcosa. Per giustizia bisogna citare anche perle nascoste come la corta “Slave” (con una base poi riutilizzata da molti) la dura “Shit Iz Real” e la psichedelia funk della title-track.

Ma in un album come questo non ci sono pezzi che si possono trascurare perchè all’ascolto si percepisce lo spirito e riesce facile immaginare l’atmosfera e la situazione in cui è stato registrato, magari nelle ore notturne in uno studio mentre fuori le strade di Brooklyn pullulano di attività più o meno misteriose e quando la luce del giorno si comincia ad intravedere, ecco pronta la colonna sonora.

Non so se l’Hip-Hop si sia definitivamente allontanato dalle sue origini ma se qualcuno avesse voglia di vivere gli scampoli di quello che è stato il periodo di massima espressione di questa musica, non deve far altro che mettersi alla ricerca di questo grezzo gioiello chiamato “Enta Da Stage”. E per un’ora il viaggio per le strade di New York si potrà fare anche da seduti.