Black and White America – Lenny Kravitz. Recensione
Lo ammetto, quando ho acquistato la versione deluxe di Black and White America e ho visto che la track list conteneva ben 16 brani (18 con le 2 bonus), ho sinceramente temuto che l’ascolto sarebbe stato, come dire, quantomeno faticoso.
Il pregiudizio derivava da alcune fra le ultime prove di Kravitz (“Lenny” in primis, ma anche “Baptism” ) che, a mio parere, non avevano mai minimamente sfiorato la magnificenza e l’estro dei primi 3 dischi (soprattutto di “Mama Said”, che reputo il suo masterpiece). Le residue speranze di essere smentito invece dipendevano dal fatto che con l’ultimissimo cd, “It’s time for a love revolution”, aveva mostrato più di qualche segno di ripresa.
Ebbene, dopo averlo ascoltato attentamente, devo dire che l’autore americano è tornato alla grande, sia dal punto di vista della composizione (rischiava infatti di girare sempre intorno a sé stesso, risultando un po’ monocorde) sia da quello degli arrangiamenti, finalmente svarianti dal funky al pop-soul, ma incastonati su solide fondamenta rock.
Di pezzi veramente speciali ne ho contati molti a cominciare dalla title track piazzata proprio in apertura. Il tema è quello della condanna al razzismo (con tanto di richiamo a Martin Luther King) e per farlo non esita a citare il caso dei genitori che nel 1963, andando in giro come coppia mista (lui bianco e lei nera), venivano sbeffeggiati e derisi. Il Kravitz pensiero al riguardo è piuttosto chiaro e racchiuso nella frase: “we’re children of one father, if you’re looking back don’t bother, we’re black and white America”: più chiaro di così si muore.
Dopo una trascurabile “Come on get it”…ecco il piacevole rock pop (sembra un buon outake dell’album “5”) di “In the Black” tutta chitarra elettrica e sintetizzatore sparati a mille e imperniata sulla metafora (magari non originalissima) notte/giorno = solitudine/amore.
Peccato per l’occasione persa di “Liquid Jesus” azzeccata nel groove ma eccessiva nel loop del refrain, ripetuto ossessivamente a ruota nel finale per troppo minuti…diciamo che un buon edit avrebbe giovato.
Immancabile il richiamo tematico al Rock n’roll (già fatto in molti altri dischi) dell’energica “Rock star city life” diretta e affilata come un coltello, ma non abbastanza radiofonica come il singolo “Stand” di cui vi lasciamo apprezzare il surreale video nel quale un Lenny ineditamente autoironico compare come presentatore di una band formata da tanti se stessi. Uno spasso.
E pensare che il meglio deve ancora arrivare.
In “Everything” c’è il top di Kravitz condensati in 3 minuti e mezzo: melodia, ritmo uptempo e soprattutto un Craig Ross in grande spolvero al suo fianco, sia sulla chitarra elettrica (bello l’assolo) che in quella acustica, mentre nella successiva (più tendente alla ballata) “I can’t be without” il tutto viene anche arricchito da un piano che la rende solida come una roccia. Notevole.
C’è il suono vintage e retrò che lo ha reso famoso nella midtempo “Looking back on love” dove la sua voce bassa in alcuni momenti ricorda addirittura Barry White, mentre il lunghissimo assolo di keyboards sembra rubato all’ispirato Stevie Wonder di Innervisions. Goduria.
Le lodi tessute all’inizio della recensione sul rinnovato eclettismo dell’autore trovano conferme anche nell’ambiziosa “Life ain’t ever been better than it is now” dove il riferimento a James Brown e alla musica di Sex Machine è così evidente da beccarsi una citazione nel finale che toglie ogni dubbio al riferimento musicale di turno.
Ma per le due vere perle del disco bisogna attendere l’epico soul di “The father of a child” che sembra arrangiata da chi ha confezionato l’ultimo cd di Alicia Key (risentitevi l’attacco di “Try sleepin with a broken heart”) e soprattutto “Sunflower”, a mio avviso il capolavoro pop dell’intera carriera di Kravitz, dove si viene trascinati in suoni che ricordano addirittura l’estro di Jamiroquai (quanto di più lontano…no?).
La lenta “Dream” (piano voce e archi) e la finale “Push” (rigogliosa di suoni e strumenti col solito Ross sempre in forma) chiudono degnamente questa ottima prova del cantante americano che ci lascia con la speranza che il tutto rappresenti un punto di svolta assai più colorato di quanto il titolo lasciasse presagire.