Bjork – Volta
Sono passati tre anni pieni da quando Bjork ha dato alle stampe Medulla, meraviglioso, enorme, difficilissimo album che ha segnato l’apice della sua ricerca sperimentale. In quel disco, era affiancata da una manciata di talenti quali Mike Patton, The Icelandic Choir, Rober Wyatt (e scusate se è poco!). Ora torna con questo Volta, in cui, cambia ancora direzione, rielaborando e riproponendo praticamente tutte le sonorità cui ci aveva abituati.
Comincerei con il dire che questo non è l’album migliore di Bjork, che rimane a mio giudizio proprio Medulla, ma non tradisce le aspettative di chi cerca nella sua musica un percorso di crescita compositiva e di innovazione. Lo ammetto, mi sono avvicinato a questo album, ancor prima di inserire il dischetto nel mio Denon, con un certo pregiudizio, anzi se vogliamo un DOPPIO pregiudizio, visto che da un lato sono sempre portato ad accettare, se non a condividere, le scelte dell’artista Islandese, e dall’altro la presenza di Timbaland in questo lavoro mi puzzava un pochino… “Ma come?” pensavo tra me e me, “E con il prossimo disco chi avrà come ospiti? Justin Timberlake? Britney Spears? Oppure cercherà di bucare il muro del mercato Italiano con Eros Ramazzotti? Gigi d’Alessio?” Lo ammetto, so essere molto cattivo… In realtà sono stato smentito.
Ma andiamo con ordine. il digipack che ospita il dischetto è graficamente molto piacevole, sembra un giocattolo, e di primo acchito sfido chiunque a non provare un momento di panico cercando di aprirlo. Per farlo, infatti, è necessario staccare un adesivo, e questo implica una certa dose di attenzione per evitare che, con lo sticker, se ne venga via anche il cartoncino della custodia. E si rimane quindi affascinati dai colori e dalle elaborazioni grafiche delle fotografie all’interno. Calore e gioco, sono queste le sensazioni che visivamente si provano. Diciamo che gli occhi rimangono piacevolmente impressionati, ma le orecchie?
Prima sorpresa: il lavoro inizia con Earth Intruders, una marcia che ricorda molto l’andare di Human Behaviour (dal primo album, Debut), dura, metallica, anche nel testo, in cui suoni infantili si mescolano a percussioni ossessive. E seconda sorpresa: il lavoro che il (da me) tanto bistrattato Timbaland ha compiuto. Insomma, non ha fatto quello che ci ha abituato a sentire dai suoi lavori più mainstream….
Wanderlust si apre con i tipici rumori di un porto, lo sciacquio delle onde sul molo, i gabbiani, il vento, il richiamo delle navi che, dapprima casuale, prende forma e ritmo, più navi si sovrappongono per creare un’armonia. Questo uso di suoni e rumori, sicuramente rimanda ad un altro suo lavoro, Selmasongs, così come le linee armoniche della sezione dei fiati, che Bjork ha composto ed arrangiato personalmente.
Il secondo pezzo finisce ancora con il suono delle onde del mare sulla banchina, e su questo iniziano i corni inglesi della canzone successiva. Epica, emozionale, The Dull Flame of Desire si regge completamente sul suono cupo, dolce ed allo stesso tempo possente di questi fiati, e sulla voce di Bjork che duetta con se stessa e con tale Anthony, che solo dal sito ufficiale del disco scopriamo essere Antony Hegarty, cantante ed autore inglese che si muove tra pop ed avanguardia.
Nella quarta Innocence ricompare la produzione di Timbaland (e caspita se si sente) e purtroppo passa un po’ indisturbata. Suoni duri, impulsivi e bassi profondi che potrebbero mettere a dura prova i vostri impianti, ma che lasceranno indifferente il vostro cuore.
E quando questi suoni sfumano, si viene catturati da I see you are, in cui si mescolano dolcissimi suoni sintetici, e la pipa, tipico strumento cinese a corde pizzicate.
Vertebrae by vertebrae si apre con delle trombe che sembrano (e non sono) dei campioni tratti da un brano di John Barry, che suonano accordi ripetitivi, crescenti e dissonanti. Beh, non sono campioni di Barry, ma della stessa Bjork, più precisamente dalla colonna sonora da lei composta per Drawing Restraint 9. Davvero tutto il brano non si muove dalla struttura imposta da questa sequenza di accordi, e la tensione è davvero crescente e palpabile fino alla fine del brano.
In Pneumonia si diverte ancora a giocare con i fiati, in Hope compare una kora, che ancora si mescola con suoni sintetici, Declare Independence sembra uscito da un disco dei Nine Inch Nails, in cui chitarre dal gusto cyber dialogano con rumorismi e percussioni techno. In My Juvenile ricompare Hegarty, ed il disco si conclude con la sua voce che si attorciglia a quella di Bjork ed ad un clavicordo. Nulla più. Null’altro che questi tre suoni. Spettacolo di poesia ed emozione.
Per concludere, un disco eccellente, in cui Bjork, se mai ce ne fosse bisogno, ribadisce che mai più tornerà a fare musica da club o da classifica, in cui mette in evidenza doti compositive ed una visione d’insieme di armonia ed arrangiamento, che davvero nessuno avrebbe immaginato ascoltandola nei suoi pur ottimi e seminali primi lavori.
A volte penso: ma cosa succederà a cantanti pur dotate di grandi voci come Beyoncè, Cristina Aguilera e compagne? Cosa faranno, tipo, a settant’anni quando voce e “qualcos’altro” scenderà? Questo problema con Bjork non sussiste… con lei non mi sono mai posto questa domanda…