Betty Davis recensione dell’album omonimo.
Pensare che lo spirito di Woodstock sia durato solo quella notte in mezzo al fango è un errore madornale. Lo spirito di Woodstock è una cosa talmente trasversale che se ne frega di razze, generi musicali, tendenze o mode. Va dalle chitarre in fiamme di Hendrix a quelle latineggianti di Santana, passa per i capelli lunghi, lisci e biondi di Joni MItchell e arriva fino all’afro di Sylvester Stone. Poi continua, va oltre gli anni 60 e lascia una grande voglia di rivoluzione, di protesta, di comunicare qualcosa anche solo con la propria immagine, purchè significhi cambiamento. E nei primi anni 70 il funk e l’R&B erano i generi leader per tutto ciò che si intendeva come “radicale”. Tanti nomi, tanta grande musica, tanta anche la possibilità di passare quasi inosservati per colpa della grande quantità di talenti presenti sulla scena.
E’ il caso di Betty Davis, una grande artista di cui troppi in quel periodo si sono accorti solo distrattamente. Già, Betty Davis, che porta tale cognome per un motivo non banale: si, è proprio il cognome del grande Miles, del quale per un anno è stata la moglie, prima che il più geniale jazzista di tutti i tempi la lasciasse perchè “troppo giovane e selvaggia”. Ora, sentire uno dalla condotta di vita non propriamente soft come MIles Davis dichiarare una cosa del genere fa pensare che Betty doveva essere qualcosa di veramente esagerato.
Controprove non ne potremo mai avere ma se il suo temperamento rispecchia la sua arte, per non dubitare della parole di Miles basta un consiglio, semplice ed indispensabile per gli amanti del funk: mettete nel vostro lettore l’album di esordio omonimo di Betty Davis. Verrete così trasportati in un universo assolutamente “wild”, fatto di musica che si unisce al modo di essere, che trasforma la femminilità in femminismo, il soul in un attacco martellante, la sensualità in veemenza sfrontata.
Recentemente ristampato su CD finemente rimasterizzato, in lussuosissima edizione in digipak con approfondito booklet e finalmente disponibile in Italia, l’album è un piacere già alla sola vista, non solo per la bellezza naturale e indiscutibile della giovane Betty ma anche per la cura delle foto e delle note interne. Ma il meglio, ovviamente, sta nel contenuto. L’album non ebbe successo all’epoca della sua uscita e francamente all’ascolto non se ne capiscono i motivi. La definizione “funk”, innanzitutto, sta quasi stretta a questa musica. Si tratta piuttosto di un rock sporco, crudo, con una protagonista che a livello di personalità e voce non ha assolutamente niente da invidiare a tanti frontman di gruppi storici. Una voce roca e calda, aggressiva ma assolutamente femminile, sopra le righe ma perfetta per certi ritmi, un mix tra Aretha Franklin e James Brown con tocchi di Tina Turner. Grandiosa.
Ma come se questo non bastasse, il lato sonoro non è semplicemente in mano a dei buoni musicisti o session-men: la parte ritmica è infatti quella di Sly And The Family Stone, vale a dire il batterista Greg Errico e il bassista Larry Graham (cioè l’inventore dei giri di basso più importanti del funk). Poi ci sono alcuni musicisti di Santana, la sezione fiati dei Tower Of Power e per finire, ai cori sono le Pointer Sisters. Praticamente un incontro tra all-star, come difficilmente se ne possono trovare. Con questi presupposti, l’album probabilmente sarebbe stato da cinque stelle anche se fosse stato solo strumentale. Invece alla fine dell’ascolto viene quasi naturale pensare che senza la voce di Betty questo disco non sarebbe stato la stessa cosa, perchè prende il ritmo, la melodia e li cavalca fino a farli suoi, rendendo la sua voce lo strumento più importante di una stupenda banda.
Feroce l’incipit, con “If I’m in Luck I Might Get Picked Up” che mette subito in chiaro le cose, roboante dichiarazione d’autorevolezza femminile che si districa tra un ipnotico giro di basso, un penetrante organo hammond ed un ritmo trascinante fino all’ultimo secondo di cinque tiratissimi minuti. Quando parte l’attacco di chitarra di “Walkin’ Up The Road” già siamo completamente dentro al groove e ci si abbandona facilmente all’intensità degli urletti di Betty, la quale dà il meglio della sua sensualità in “Anti-Love Song”, colonna sonora di tutte le cose che non avete mai osato nemmeno immaginare. Non è una ballad ma non è nemmeno un pezzo dal ritmo sfrenato, trionfa il piano sul solito sporco ed incredibile basso di Graham. La voce sexy di Betty Davis fa il resto, costruendo un pezzo assolutamente emozionante. Si torna al groove più energico in “Your Man My Man” con tocchi rockeggianti piuttosto evidenti e minuti di pura energia, confermata nella superfunky “Ooh Yea”, dove per un attimo sembra di esserci trasferiti su un disco di Sly And The Family Stone. Se invece volete la versione femminile di Jiimi Hendrix, è sufficiente immergersi in “Steppin’ In Her I. Miller Shoes”, dominata dalla chitarra elettrica e con Betty che dimostra di avere voce per incidere un disco di hard rock. Impressionante. Il finale è di classe, con “Game Is My Middle Name” che ritorna sullo stile tra ballad e frenesia, e impreziosita da sopraffini riff ad accompagnare il ritornello.
Insomma, una performance perfetta dopo l’altra, un gruppo che segue ed asseconda l’aggressività e la presenza di spirito della front-girl (ma a volte può sembrare anche il contrario) e arrangiamenti assolutamente straordinari rendono “Betty Davis” un disco da ascoltare. Non importa in quale momento della giornata o in quale stato d’animo, sicuramente in queste tracce troverete un buon motivo per affrontare con grinta e decisione qualsiasi cosa vi capiti. Sarebbe un peccato rinunciarvi!