Bestival live 2011- The Cure, recensione
La dimensione live dei Cure ha sempre avuto un maggior impatto rispetto a quella in studio.
In particolare il frontman storico Robert Smith, con la sua discreta ma altrettanto carismatica presenza scenica, affascina da oltre trent’anni i fan della band così come la proverbiale “durata fiume” dei concerti caratterizzati dallo straripante repertorio.
Di solito si tratta di una sorta di mezza maratona rock, proprio come nel caso di questo Bestival Live il cui arsenale è formato da ben 32 “bombe” (di cui alcune decisamente atomiche), per 2 ore e mezzo di musica.
Ricordo che nell’88 quando vidi la loro esibizione a Bruxelles in supporto del loro LP più importante di sempre (Disintegration) alla fine della serata pensai: “bellissimo, ma sono esausto!”.
Oltre alla lunghezza, altro elemento comune dei loro set è la tendenza generale ad accontentare un po’ tutti: quelli che preferiscono la loro anima più dark (la maggior parte direi) e quelli che comunque non disprezzano il loro lato più sbarazzino e più allegro.
La scelta di “Plainsong” per l’apertura dà subito un’impronta alla performance, essendo la medesima del tour di cui sopra. I suoi brevi sfarfallii iniziali fatti di “suoni luccicanti” lasciano subito spazio al muro tappezzato da tastiere che contraddistingue il loro suono più cupo e che li ha resi il gruppo di riferimento del genere.
Segue “Open” che, a sua volta, apriva il tour di “Wish”, album decisamente più hard rock, basato quindi maggiormente sul suono delle chitarre che si mescolano insieme e praticamente privo di synth. Uno dei miei preferiti anche quello. Insomma, si capisce subito che sarà una notte da ricordare.
La prima svolta pop della serata arriva un po’ più in là con un mini set di 7 canzoni che inizia con “Just like heaven” (da “Kiss me kiss me kiss me”) e termina con “Play for today” (dal mitico “Seventeen seconds”), passando per quella “In between days” che forse nell’immaginario collettivo è considerata la canzone emblema dei Cure più radiofonici. Per la sua grande carica voglio citare anche “Push” (tratta da “Head on the door”, così come la precedente) che purtroppo viene di rado eseguita live.
Diverso il caso di “A Forest” che invece è un must insostituibile della band inglese e che merita il video che segue, assai più eloquente di qualsiasi recensione.
Nella seconda parte del concerto, con la logica di una piacevole alternanza, si torna ad ascoltare il lato oscuro della band inglese incarnato da “One hundred years”. Un pezzo tirato che ho sempre apprezzato perché, seppur scandito da un ritmo incalzante riesce a trasmettere tutto il pathos angosciante che caratterizzava l’album “Pornography”, dal quale è tratto.
Non poteva mancare neanche “Lullaby”, paradossale favola di un mostruoso incubo, che pur avendo un suono oggettivamente accattivante – che all’epoca la rese il naturale singolo apripista del già citato “Disintegration” – in realtà resta uno dei rari casi di canzone “non commerciale” ma di successo dei Cure.
Il fiume di canzoni scorre ancora per un’altra ora, fino ad arrivare al poker di canzoni di chiusura prese dall’album di debutto “3 imaginary boys” che, a mio avviso, rappresenta la vera chicca di questo “Bestival live”. Un ritorno al passato, quando i Cure, ancora poco più che ragazzi, leggevano libri scritti da autori esistenzialisti (leggasi “pessimisti”) come Albert Camus e dai quali assorbirono parte dell’ispirazione per i loro testi (in particolare “Killing an arab”) ed in fondo anche per il loro stile.
Da allora Robert Smith e compagni hanno verosimilmente visto avverare i propri sogni rock, alimentando nel contempo anche quelli di milioni di fan sparsi per il mondo che hanno avuto la fortuna di potersi immergere nelle copiose acque dei loro live, uscendone “felicemente esausti”.