Beastie Boys – The mix up, recensione.
Newyorkesi ma internazionali, di nicchia ma allo stesso tempo acclamati dal grande pubblico, folli ma geniali.
Di paradossi per definire i Beastie Boys ce ne sarebbero all’infinito. Trasversali a tanti generi, hanno avuto la grande capacità di rimanere in auge mantenendo un’identità tutta loro, presente in qualsiasi idea abbiano trasferito su disco. Nati nei primi anni 80 con un grezzo punk rock, si sono consacrati con “Licensed To Ill”, lavoro che mescolava hip-hop ed hard rock in maniera mai sentita prima, riuscendo nell’impresa di non ammorbidire nessuno dei due generi e dando ad un classico osannato dai fans dei Run DMC come da quelli degli AC/DC. Crescendo, i tre ragazzi bestiali maturano, si lasciano alle spalle gli istinti giovanili da feste universitarie ed inanellano una serie di album di livello strepitoso, da “Paul’s Boutique”, manifesto superiore di campionamenti funk e soul ed oggi caposaldo dell’hip-hop, passando per le sperimentazioni strumentali di “Check Your Head” e l’insieme di electro, dub. hip hop e rock di “Ill Communication” ed “Hello Nasty”.
Dopo questo ampio percorso nel mondo della musica e in un momento in cui sperimentare era diventato di moda, i Beastie Boys hanno sfornato il minimale “To The 5 Boroughs” ovvero un ritorno all’hip-hop puro e duro degli anni 80 in grande stile, bello quanto inaspettato. Ma l’imprevedibilità è una caratteristica che contraddistingue il trio. Mai dare nulla per scontato è il loro motto. Ecco infatti che il loro ultimo lavoro, “The Mix Up”, è anche il loro primo totalmente strumentale, più nello specifico un album soul-jazz in stile Crusaders o Grover Washington Jr. ma ovviamente col classico tocco “bestiale”. In un certo senso i tre sembrano così voler dare continuità ad un suono che da “Check Your Head” in poi ha rappresentato un valore aggiunto in ogni disco, pur rimandendo lontano dall’essere l’elemento protagonista. D’altronde chi ha avuto la fortuna di vedere i Beastie Boys in concerto sa che sono ottimi musicisti in grado di fare grandi cose come power trio.
L’intossicante loop di basso e le sferzate di hammond di “B For My Name” aprono l’album e in un istante si entra in un mood da luci basse e aria retro, trasportati poi da una calda batteria. Viene da lontano il riff di chitarra che guida “14th Street Break”, la cui melodia da inseguimento sembra essere un omaggio alle colonne sonore di blaxploitation.
Indiscutibilmente concentrati su un progetto in cui i Beasties sembrano essersi trasportati negli anni 70 anima e corpo, si tuffano in un estivo soul latino nell’inebriante “Suco De Tangerina” per passare ad un introspezione semi-psichedelica nella rilassante “The Gala Event”, senza dubbio il pezzo più da ascolto dell’intero lavoro. Il funk si fa prepotente e ipnotico in “Electric Worm”, dove varie melodie si intersecano ed ogni strumento ha il suo momento da protagonista pur non risultando mai un corpo estraneo rispetto al gruppo.
L’uso di strumenti latineggianti quali percussioni e maracas è ricorrente durante l’album seppur non prendendo mai il sopravvento evitando di ricalcare le tracce del primo Santana. In “Freaky Hijiki” lo shake iniziale lo potrebbe far supporre ma poi il pezzo si delinea verso un delicato soul-jazz con i suoi break di batteria che sono distintamente il marchio di fabbrica dei Beastie Boys, riconducibile anche ai loro album storici. “Off The Grid” è costruito su un giro di chitarra che entra immediatamente in testa mentre sopra eleganti tocchi di chitarra jazz lo rendono un brano di grande originalità, quasi un mix tra George Benson e James Brown, salvo poi sfociare in un esplosione strumentale molto energica, la cosa più vicina al rock presente nel disco. I minimalismi di “The Rat Cage” e “The Melee” si inseriscono nel percorso dando una sferzata di classe, giocando prima sulle splendide tonalità dell’organo hammond e poi della batteria che si rende protagonista pur accompagnando un crescendo musicale a dir poco entusiasmante, una vera e propria jam. Si apre così il terreno per il terzetto finale, prima con la splendidamente intitolata “Dramastically Different”, contraddistinta da un beat tranquillo e qualche escursione in territorio orientale, poi con la tesissima “The Cousin Of Death”, ovvero effetti speciale e aggressività strumentale, grande incisività della batteria e chitarre ed organi che si scatenano pian piano. Infine la chiusura con “The Kangaroo Rat”, bizzarra come il suo titolo, fumante funk a tinte soul che ancora una volta mette insieme adrenalina ed introspezione.
Qualsiasi cosa si voglia pensare dei Beastie Boys, è impossibile non rilassarsi ascoltando “The Mix Up”, assorbendo quella che sembra essere la loro condizione mentale nel momento in cui lo hanno suonato, cioè tranquilla e solare. Pur non essendo qualcosa che sposterà gli equilibri nella storia del jazz-funk, è un disco che si affianca ai classici del genere, risalenti per lo più agli anni 70, senza per nulla sfigurare. Si può immaginare che questi brani suonati dal vivo potranno guadagnare ancor più di spessore, magari trasformandosi in lunghe jam mentre gli strumenti trasferiscono l’atmosfera nell’aria. Ma con un impianto decente ed una situazione adatta (magari un bel barbecue estivo) “The Mix Up” sarà comunque la perfetta colonna sonora per giornate spensierate.