Automatic For The People – R.E.M. (1992)
Nel 1992 la carriera dei R.E.M. aveva già svoltato da un po’. Dopo cinque ottimi album per la IRS, che gli fornirono una dimensione di band di culto, il quartetto di Athens (Georgia) aveva finalmente fatto il primo grande salto, pubblicando “Green” nel 1988, sotto la major Warner. Il boom planetario della loro carriera, tuttavia, sarebbe arrivato tre anni più tardi, con l’uscita della splendida “Losing my religion” che, come una sorta di passepartout, aprì loro tutte le porte del paradiso. “Out of time”, il disco che la conteneva, vendette milioni di copie, e così, una volta raccolti gli applausi, il gruppo si trovò a un punto chiave: riuscire a consolidare l’enorme successo, o tornare ai livelli degli esordi, magari per sempre.
Nel ’92 i R.E.M., quindi, attesi alla prova del nove, concepirono quello che dalla maggior parte dei critici e dei fan è considerato il loro insuperabile capolavoro: “Automatic for the people”. Una manciata di canzoni, prevalentemente intime, in cui il suono acustico domina nettamente su quello elettrico e che, a riascoltarlo ancora oggi, risulta praticamente senza difetti. Sullo sfondo suonano molto spesso archi sognanti, arrangiati dalla mano sapiente del bassista dei Led Zeppelin John Paul Jones, come già aveva fatto per la band di Mick Jagger.
Il mood è generalmente cupo, sin dallo splendido pezzo di apertura “Drive”, a dire il vero tutt’altro che facile, in cui la voce di Michael Stipe ti avvolge con una sorta di mantra folk da brividi insieme alla musica che dalla calma piatta iniziale, in un crescendo di archi e chitarre acustiche, esplode in chiave elettrica per poi rasserenarsi definitivamente. Il tema della morte è toccato nella seguente “Try not to breath” – nella quale un uomo ha ormai deciso di farla finita – così come nella dolcezza infinita di “Sweetness follows” (la mia preferita in assoluto) che invita ad andare oltre il dolore della separazione dai nostri cari, ormai scomparsi. Amarezza ma anche speranza dunque, proprio come nella disarmante e melodicamente inarrivabile “Everybody hurts” che farebbe commuovere anche il più insensibile degli esseri umani. Due gli episodi che, invece, contrastano con l’atmosfera malinconica, a volte quasi angosciante, di Automatic: la scatenata “The sidewinder sleeps tonight” con l’ormai celebre scioglilingua nel ritornello (“call me when you try to wake her up”) e la più rockeggiante “Ignoreland”.
Ma, come avviene in un banchetto nuziale, è il finale a riservare le delizie più gustose: la ciondolante “Man on the moon” (dedicata al comico americano Andy Kaufman), il piano vellutato della ballata notturna “Nightswimming” e la melodia country della mid-tempo “Find the river” (dedicata a un poeta di Athens da poco scomparso). Peter Buck e compagni proveranno per anni a inseguire questa perfezione con numerosi dischi, cambiando più o meno genere (Monster, Up), o mischiando le carte (New Adventures in Hi-Fi), fino al loro scioglimento di qualche anno fa, ma pur producendo ancora degli ottimi dischi non ci riusciranno più. Gli incantesimi, ed è forse anche questo il bello della musica, sono rari e gli artisti che riescono a catturarli, incastonandoli nel tempo, devono ritenersi fortunati.
I R.E.M. lo hanno fatto con “Automatic for the people” regalandoci qualcosa di magico.