Animation
Si dice che i gusti di una persona cambino ogni sette anni.
Sette anni fa non credevo in questa diceria.
Mai profezia fu più vera.
Ora mangio e bevo cose che prima non apprezzavo, vedo film che ho sempre rifiutato e non ascolto più cose che amavo. Ci sono elementi che, forse persi nei sentori di avanzante maturità, mal digerisco. Tra le cose che bloccano il mio spirito attualmente ci sono, i dischi troppo lunghi ed i brani troppo diluiti. Se prima amavo canzoni come The rime of the Ancient mariner, ora non digerisco più con la stessa facilità brani che superano i 5 minuti. Soggettivamente parlando presumo sia un cambiamento dettato dai tempi, forse conseguenza della sindrome da disattenzione, incapace di farmi mantenere il contatto con una medesima realtà per un lasso di tempo troppo lungo.
Ovviamente, un incipit di questo tipo non fa presagire un articolo positivo su Asiento, visto che i brani brancolano attorno ai dieci minuti l’uno…escludendo i 20minuti20 dell’introduttiva Pharaoh’s dance. Al primo ascolto mi sono domandato infatti se forse non ero io il più adatto della redazione a dover recensire questo full lenght degli Animation. Sono stato sul punto di cedere la mano, ma poi qualcosa in me è scattato, una sorta di switch on delle pigre sinapsi poco abituate alle suite.
Il mio strampalato punto di partenza può apparire ai più come scomodo e fastidioso, ma a ragion veduta può offrire una disincantata e distaccata esegesi di questa coverizzazione di Bitches Brew di Miles Davis.
A mio avviso però, parlare di cover in ambito jazz è di per sé blandamente grottesco, pertanto sarebbe meglio parlare di reinterpretazione, che agli occhi dei puristi potrebbe apparire una sinergia di forze blasfemiche, mentre per altri un geniale rinnovarsi di una vera e propria pietra miliare.
Le sei tracks sono infiammate dall’ardore di Bob Belden e dal suo sassofono, punto cardine di un tecnico ensemble sonoro formato da Tim Hagans alla tromba, Scott Kynsey alle tastiere, Matt Garrison al basso e Guy Licata alle percussioni. A questi si unisce l’elettronic turntables di DJ Logic, apprezzato Disc Jockey della scena newyorkese.
L’approccio musicato scelto dal quintetto è ovviamente molto distante dall’originale, gli arrangiamenti e i sapori drum’n’bass si mescolato al mondo dub e al progressive, senza dimenticare free e soft noise. Il disco condito da sentiti appalusi è la registrazione in presa live di un concerto trasmesso dalla BBC, capace di dar prova di coraggio nel proporre l’impavida, ma valevole idea di avvicinare due mondi così diversi come il classico Jazz e l’idioma dell’altronica.
Il disco si dipana attraverso mescolanze lontane e tribali che volgono lo sguardo al mondo elettronico, mostrando il lato di sé più variabile e al contempo ipnotico. Antiche sensazioni sembrano cambiare più volte pelle, attraversando acri jazz alternative, che a tratti riportano alla mente sonorità inusuali come quelle ospitate dal Giardino delle vergine suicide. Il suono si modernizza in itinere, mediante un progressive blues che, tra note basse e interventi sonori di ampio respiro, regalano maggior risalto all’aurea jazzata. Briciole di noise sulle pareti definiscono poi un’ambientazione calmierata ma variabile, tale da definire passaggi discontinui tra sensazioni doorsiane a free razionale.
Un disco che vive di luce propria ricreando un fiume di note, in cui si è liberi di tuffarsi facendosi trasportare dai vortici delle chiavi di violino, ma dal quale si è liberi di uscire scrollandosi di dosso la concettualità del nuovo.