Ananda
Ananda è una parola sanscrita che riporta ad un concetto di beatitudine, in disarmonico contrasto con il titolo dato al secondo album della band campana Wardiaries. Una sorta di concept, che potrà per alcuni apparire fuori tempo, viste le inclinazioni musicali del quartetto, ma che in realtà sembra voler rinverdire fasti recenti dall’anima post.
Prima di tutto però, affrontiamo le critiche.
In primis sembra inevitabile dover affrontare la dissonate opera grafica che sta alla base del booklet, di certo non all’altezza della cover art. Infatti le pagine del libretto, l’inlay e il back appaiono sotto le sembianze di un confusivo patchwork di stili che deflagrano nel kitch artistico, tra arte medica ottocentesca, grafismo postmoderno, arte pittorica e session fotografiche basculanti.
Diciamo che peggio di così era difficile incominciare…MA ( e scrivo “ma” con le lettere maiuscole!), fortunatamente la confusività grafica poco ha a che fare con le 12 tracce del full lenght di Palomba e soci.
Si parte con Chapter II partitura proto grunge che, pur disturbante, non appare intenzionata ad inseguire nulla di innovativo. Nonostante tutto però la traccia introduttiva ci accompagna con semplicità nel territorio Ananda, tra riff di buon impatto ed una voce piacevolmente indefinita, quasi sussurrata atta a sviluppare linee alternative tra stop and go, turbanti e a tratti destabilizzanti, assiepata a silenzi e chitarre accarezzate, in attesa del un picco climatico di Ground , che lascia l’ascoltatore tra percussioni proto tribalistiche che ci portano inevitabilmente ad un aumento del mordente nel suo outro.
Con Soldat Perdu le note di un incipit alla Eels volgono a terreni desolati e indefiniti che presto aprono all’arpeggio di un rock & blues melanconico, legato a scarni passaggi che palesano come in alcune altre tracce del full lenght un arrangiamento inadeguato (forse) a definire al meglio le intenzioni.
Se poi con Gordon Pym l’introversa voce del frontman segue il buon sviluppo del violoncello nascosto dietro alla sei corde, è anche evidente un mancato perfezionamento a livello di post produzione. Infatti pur considerando l’ottimo impatto emotivo, volumi e missaggio avrebbero potuto essere migliorabili. Le idee emergono ferventi da tracce come Bluesman, tra spazi Gossardiani e narrazione 70’s style, tra riff semplici e sound ondulante, che avanza diluito e meditativo.
Tra i brani migliori annoveriamo How to forget an Ocean, track ragionata e coinvolgente, sia grazie alle note del Cello, reale protagonista della lirica, sia ad Alfredo Palomba che riesce a dare il meglio di se mettendosi al servizio di una partitura dal sapore canadian, senza sbavature ma ricca di passaggi alternative. Sul medesimo sentiero incrociamo poi la bella It Shines , in cui la classicheggiante chitarra incontra ancora Pescosolido per un’altra piccola gioia musicale, tanto semplice e genuina quanto discreta e raffinata.
Il lato b è poi fortemente caratterizzato da venature grunge di stampo Nirvaniano, come dimostrano
Somethin’ beats mee Indian Spring che nel suo citare indirettamente Jesus don’t want me for sunbean, raccoglie la quiete dopo la tempesta, tra spezie ed aromi d’oriente, in cui il back voice di Marco Patavini dona solidità a passaggi di un brano arduo e viaggiante.
A chiudere un disco ciclotimico è infine Massacre che stimola la mente, ma definisce un opera che vorrebbe sognare, ma che si ritrova in uno stato iniziatico di dormiveglia..
Tracklist
1. Chapter II
2. Ground
3. Soldat Perdu
4. Major E
5. Gordon Pym
6. Youth
7. Bluesman
8. How to forget an Ocean
9. It Shines
10. Somethin’ beats me
11. Indian Spring
12. Massacre