All days are nights (songs for Lulu)
In questi ultimi anni, fiumi di inchiostro virtuale sono scorsi sulla rete nel tentativo di descrivere musica e stile di Rufus Wainwright. C’è chi lo ha definito addirittura come un “genio” (Sir. Elton John fra questi) o anche, più verosimilmente, come il nuovo “enfant prodige” della musica pop internazionale.
La realtà è che, piaccia o non piaccia, questo cantautore/figlio d’arte (di Loudon Wainwright III e di Kate McGarrigle, recentemente scomparsa a causa di una lunga malattia) è un talento eccezionale che tanto in campo musicale, quanto nella vita pubblica, non ha mai avuto paura di osare, ben sapendo che, proprio per questo, non sarà mai in grado di mettere tutti d’accordo.
Anche questa volta, a ben vedere, non è da meno quanto ad audacia, presentando il suo “All days are nights” come vero e proprio concept album, nel quale accompagna la sua angelica voce esclusivamente col succitato e da lui adorato strumento. Come una sorta di estensione, a dismisura, di quel capolavoro che fu “Maker makes” (dalla colonna sonora di “Brokebeack mountain”).
E il risultato è il seguente: un disco tanto difficile quanto speciale e profondo.
Quanto alla difficoltà, beh…si direbbe evidente: quando uno stilista decide di presentare i suoi abiti usando sempre lo stesso colore è inevitabile che questi finiscano per somigliarsi un po’ tutti, costringendo quindi lo spettatore più svagato a prestare più attenzione ai dettagli. Tuttavia, quando tale volontà c’è (…di ascoltare e di riascoltare) si scopre che ogni capo ha in realtà un suo taglio particolare che lo rende unico.
Se prendiamo – ad esempio – l’apertura di “Who are you New York?” veniamo misteriosamente catapultati (…è o non è il potere della musica e della poesia?) nella Grande Mela, dove scorrono via via immagini in bianco e nero…..partendo dalla Stazione Centrale, passando per l’Empire State Building fino a Square Garden, facendoci letteralmente sognare ad occhi aperti (o chiusi, funziona uguale).
Non manca, come già successo in passato (ricordiamo la struggente “Dinner at eight”, in “Want one”, rivolta al padre), una canzone dedicata alle difficoltà di comunicazione nella sua famiglia. Questa volta tocca alla sorella Martha (della quale consigliamo entrambi gli album già pubblicati) ascoltare un suo “ideale” messaggio in segreteria telefonica nel quale le richiede, quasi in lacrime, di essere richiamato per dirle, tra l’altro, delle sofferenze della mamma gravemente malata.
C’è lo spazio anche per un po’ di ritmo (fino a quel momento lento e malinconico, coerentemente con la dark soul di Rufus) con “Give me what i want and give it to me now”, dove l’autore sembra aver capito che chi gli sta davanti non sarà mai il suo lui (… “no, you can’t be the one”).
Romantico, triste e ancora una volta rischioso il trittico centrale di sonetti di Shakspere, messi deliziosamente in musica dall’artista; un voto e mezzo in più lo diamo volentieri a “Sonnet 10”, scelto (paradossalmente) tra quelli più esplicitamente dedicati a una donna, nonostante la sua (stra)nota omosessualità.
Quando sembra mancare il vero colpo da ko ecco che arriva la perla “The dream”, sulla scia di suoi grandi pezzi (Going to a town, I don’t know what it is, Poses) sempre dolce/amari, teneri ma forti come solo lui, con così naturale maestria, sembra ultimamente saper fare.
Lo ripeteremo fino alla noia: “All days are nights” è un disco per esploratori delle parti più oscure dell’anima e dell’amore…quindi, coloro che fossero intenzionati ad avventurarsi nel suo mondo è bene che si preparino a un ascolto che non si limiti a sentire con le sole orecchie, ma permetta di utilizzare tutti gli atri e i ventricoli del cuore.
Come avrete già capito, a nostro avviso, non se ne pentiranno affatto.