Aemaet “Human quasar”, recensione
Premessa
Aemaet rappresenta una sorta di magic word, atto cripto-divino che riporta al concetto di sé attraverso verità, sincerità e fedeltà, uno sguardo cabalistico che riesce a donare alla parola stessa una tridimensionalità incantata, costruita al di sopra di una strutturazione geometrica che molto deve alla sacralità profana. Una verità divina che va a inoltrarsi nell’oscurità umana, qui metaforicamente illuminata da un lontano e cangiante fulcro, una quasi-stella capace di emettere brusche fiammate incomprensibili all’uomo.
Proprio da questa parola di Astaroth, secondo la leggenda, è possibile dare vita al Golem, materia informe in grado di aiutare il popolo ebraico, ma al contempo causa di uno scontro demiurgico in una lotta ripresa dall’espressionismo di Wegener.
Con questa nuova fatica gli Aemaet pur partendo da una sorta di velato ossimoro, puntano il proprio concept verso un allegorico ed inevitabile dualismo concettuale, che si ritrova nel titolo del primo official full lenght, album pronto a celare il classico alternarsi tra chiari e scuri, conscio e subconscio.
Tutto ciò basterebbe per portare il potenziale ascoltatore ad avvicinarsi agli Aemaet, band relativamente giovane, ma già in grado di percepire le naturali vie del marketing. Infatti, nell’ignoranza concettuale (nel senso arcaico di ignorare), appare lapalissiano considerare più interessante ed appetibile un prodotto che nasconde mistero, storia e ragionamento, piuttosto che mostrare interesse selettivo verso un disco che vela banalità e poca struttura. Dunque il primo passo è compiuto, basterà ora capire se l’approccio musicale risulta all’altezza del suo preambolo.
Il disco
L’album si apre imperniato di sensazioni Morriseyane, qui truccate in modalità alternativa proprio come dimostra senza troppe ombre The iconoclasts, traccia sintetica e ridondante nella sua apertura. La voce del frontman cambia e muta in itinere, come a voler sorreggere e destabilizzare l’approccio lineare del drum set.
Gli sviluppi sonori appaiono sin dal primo ascolto ammalianti (A Boy called Hermes), arricchiti da un ermetismo ponderato che rende le liriche piccole poesie musicate, da cui emerge una cura attenta ai singoli suoni, lasciando però in evidenza la genuinità priva di una spasmodica ricerca del particolare.
Gli ottimi bridge definiscono al meglio tracce come Demons of Dawn, la cui litania iniziatica esplode in un hard ‘n’heavy, che porta alla mente il mainstream degli Him, per poi definirsi su percorsi new wave in grado di richiamare una deliziosa ambientazione dark, atto premonitore del lato oscuro di questo Human Quasar.
Nel mentre, la chiusura post rock di Slumber va a maturare nelle note di The hangman prima e di Shadow poi, arrivando ad invitare l’ascoltatore tra le molte cicatrici che la mente del narrante nasconde in una buia e posata (ma inquieta) traccia sonora.
Un disco piacevole e per certi versi originale, che si estende attraverso citazioni prog (Paradoxical spleep) e profondità sonore (A shelter for dreams), attestato di chiusura di un full lenght preferibile per il suo lato pece.
Tracklist:
Vetus Ordo Seclorum
The Iconosclasts
A boy called Hermes
Demons of dawn
Andy the Mothman
Slumber
The Hangman
Shadow
Paradoxical sleep
A shelter from dreams