Aedi ” Aedi met Heidi”, recensione

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Gli Aedi erano figure sacre dell’antica Grecia, cultuali cantori ciechi la cui sapienza rendeva la vista non indispensabile. La loro arte narrativa era priva di testo, ma definita esclusivamente attorno alla trasmissione orale del sapere, attraverso un linguaggio chiaro ma forbito, nell’intento di concretizzare la cosiddetta memoria storica, nel tentativo di stabilizzare nella funzione mnemonica il passato , il presente e talvolta il futuro.

Dopo molti secoli una deliziosa band marchigiana, prendendo ispirazioni proprio dall’antico passato, ha deciso di omaggiare i sacrali Aedi, attraverso una mescolanza di indie rock patinato ed elitario.

Il quintetto, attivo da pochi anni, è apparso sulla scena con il self produced The adventures of yellow e l’apprezzato extended play Polish, anticipatorio di quest’ultimo Aedi met Heidi, full lenght che Music on tnt ha ascoltato in anteprima e voluto fortissimamente.
Un disco che regala all’occhio la sua parte, grazie ad un lucido slim cartonato, descritto dalla china di Luigi ”Muhe” Cozzolino, capace di racchiudere in uno stile agè una sorta di iper realismo metaforico e desertico, altamente descrittorio della sonorità pensosa di questa ultima opera.

Aedi met Heidi promossa da Seahorse recordings, Gratis produzioni, Audio globe e Lunatik si apre con Easy Easy tale, che a differenza del titolo appare un opera tutt’altro che di facile consumo. Il breve brano si propone di raccontare una storia soltanto attraverso il canto di Celeste Carboni, unito ad un docile controcanto femmineo, capace di valicare scale vocali che in meno di un minuto ci introducono nel magico mondo degli Aedi, rara e felice realtà nostrana, dedita alla musicalità dell’ estremo nord europeo.

La caratteristica portante di questo album è senza dubbio quella di non annoiare mai; ogni canzone ha la fattezza di una gustosa suite dai diversificati movimenti. Un esempio chiarificatore è senza troppe esitazioni On the second floor , che come incipit porta con sé un riff granitico innestato tra rock & grunge, posizionato nel bel mezzo di un dialogo tra chitarre. Il duetto finisce per bloccarsi d’improvviso nel tentativo (riuscito) di ricercare un anima da raddolcire, attraverso i tasti bianchi e neri di un pianoforte ed una batteria soffice capace di elevare una voce tanto particolare quanto inusuale. Un’alternanza di sentimenti e sensazioni, metafora di una vita ciclotimica, che trova pace in un finale post rock in cui la voce di Celeste gioca sull’estremizzazione delle note alte.

Il magico viaggio all’interno del packaging cartonato, prosegue con She is Happy traccia scelta per la realizzazione dl video lancio. Il brano racconta in maniera giocosa ed allegra note piacevolmente tinte di pop alternative, preparatorie ad un climax sonoro in cui tutte le forze musicali vengono a colpire in un unico centro, definendo una perfetta mistura musicale molto vicina a quei God is an Astronaut di All is violent all is bright. Il finale aperto si sposta verso un rasserenante inseguimento che la sussurrata voce adopera nei confronti di un utilizzo sapiente della batterie e di un organo che da chiusura in una sorta di appendice sonico.

Con Peter and Clara si da poi il via ad un’aura favolistica, adatto a racchiudere una sorta di minimalismo giocoso di una fisarmonica protratta verso un ritmo ridondante e quasi bambinesco a differenza della seguenteMonster, il cui incipit sembra voler essere un esplicito omaggio all’arte dei Fanfarlo. Il finale Sigur ros style da entrata a Black Keys prima e Heidi poi, brano in cui un spensierato piano ed un cantato semplicistico raccolgono note tanto bucoliche quanto ipnagogiche, derivanti da un titolo che può essere o vuole essere fuorviante.

Ma il bello ancora deve arrivare, infatti è proprio con The history of a funky nanny goat che ritroviamo la cima di quelle arrotondate montagne della cover art. La traccia numero 9 è senza dubbio è la fiammella che mi ha fatto invaghire degli Aedi, con la sua veste post alt rock, da cui trapelano sentori provenienti da quei fioriti giardini di mirò, anche se senza influssi radicalizzati. L’ennesima altalena di sensazioni è legata imprescindibilmente ad una vocalità davvero splendida, che può e deve essere odiata o amata, senza l’utilizzo di mezzetinte, proprio come accade nel conclusivo capitolo di questo full lenght. Tin Tun Tan, in cui si simula il suono caldo e disturbato di un vecchio vinile impolverato, che rivive su di una difettosa puntina. Una ninna nanna sussurrata da una voce lontana, delimitata e cadenzata dai tasti del pianoforte, che racconta in maniera ciclica un movimento lento, pensoso e fantasioso, soffice come quelle nuvole estive che prendono vita grazie alla fantasia dei bambini che le osservano.
Insomma una musicalità spinta verso la parte più dolce dei compositori islandesi, riuscendo a fondere nel calderone anche un funzionale rumorismo, che non disturba, ma aumenta la caratura di uno tra i migliori brani di questo ottimo album.