Acid Motherhood – Gong, recensione.
Cosa succede quando si mettono insieme due gruppi che nelle loro rispettive carriere hanno fatto grande musica rovesciando il concetto di normalità? Certamente qualcosa di sonoramente inspiegabile, di estremamente cerebrale e di incredibilmente interessante. Succede che viene fuori un disco come “Acid Motherhood”. I fautori di questo viaggio (ma renderebbe meglio l’idea il termine inglese “trip”) sono i Gong di David Aellen, storico gruppo di rock d’avanguardia, e gli Acid Mothers Temple, portavoci del rinascimento psichedelico giapponese figlio di quella straordinaria corrente anni 70 definita “japrock”. Questi ultimi sono guidati dal virtuoso e geniale chitarrista Makoto Kawabata, che sul retro di copertina è ritratto in una “sobria” posa resa celebre da Frank Zappa. L’arte grafica ci introduce in maniera consona a ciò che ci aspetta, tra tinte rosa shocking e fotomontaggi di donne nude dal volto barbuto, si capisce subito quale sia la dimensione vissuta dagli autori.
“Super Cotton” è il biglietto d’ingresso e non si parte propriamente in prima. Sono gli effetti speciali del tastierista degli Acid Mothers Temple, Cotton Casino (a cui è evidentemente ispirato il titolo del brano, non a caso)a farla da padrone ma c’è anche un tiratissimo basso e cori strampalati che ricordano (e non vuole essere un clichet) le sigle dei cartoni animati. Impossibile non farsi coinvolgere dalle atmosfere stonate tipiche dei Gong degli anni d’oro ma anche lontanamente zappiane che nel pezzo esplodono nota dopo nota. Ma attenzione a credere che sia tutto un grande gioco perché qui siamo in presenza di finissimi musicisti, capaci di comporre due minuti melodici che fondono folk giapponese e psichedelica come in “Old Fooles Game” e poi subito creare un perfetto piano sonoro scintillante per il rock elettrico di “Zeroina” dove la follia della chitarra di Kawabata si erge ad assoluta protagonista nei tre minuti completamente strumentali. A questo punto le luci si saranno spente e si sarà illuminata la galassia acida quando saremo pervasi da “Brainwash Me”, in cui i Gong sembrano incontrare George Clinton e voler ricordare il suo P-Funk. “Monstah” sembra voler mettere di nuovo in evdenza le qualità di Makoto Kawabata, invece gioca tra gli equilibri armonici, facendo certamente trasparire i voli pindarici chitarristici, mantenendoli però in un lussuoso sottofondo, dando invece risalto ad un sound cupo e poco rassicurante giocato tra batteria e tastiere. Ancor più raffinato è il lavoro di “Bazuki Logix”, imperniato sul tranquillo groove di una chitarra acustica persistente ed intensa, mentre dal nulla prende corpo l’assolo elettrico assolutamente esaltante senza essere invadente. E chiunque pensasse che in un album del genere non potesse esserci lo spazio per una ballad, si può ricredere con l’ascolto di “Wavin'”. Certamente fuori dai canoni classici, è comunque un pezzo molto rilassato, di una delicatezza superba incentrata su morbida voce e base acustica. Un vero tuffo nella scena californiana di fine anni sessanta. Ma in realtà è solo un break prima del gran finale: i 12 minuti di “Mokototen” formano una jam con totale libertà di espressione per tutti i protagonisti. Contraddistinta da un funk-rock sporco che potrebbe accontentare i fans dei primi Red Hot Chili Peppers, vede l’alternarsi di suoni alieni, schitarrate e serrate percussioni, il tutto costante e senza pausa per tutta la durata del brano. Niente cambi di ritmo bensì coerenza nell’improvvisazione. Torna l’apparente calma nel pezzo finale, “Switchless In Molasses”, dall’incipit pacato fino al crescendo controllato che lascia spazio a voci dall’aldilà e ad assoli inquietanti, quasi a togliere la sicurezza che il ritmo pacifico sembrava voler trasmettere.
Qui si chiude un lavoro che a dispetto delle aspettative è molto meno fuori di testa, risultando di incredibile armonia e dal suono che si potrebbe definire “etereo”. La ricerca è presente e di sicuro l’ascolto è consigliato soprattutto a chi ha una capacità di lettura della musica molto ampia ma ciò non significa assolutamente che i brani siano inaccessibili all’orecchio “inesperto”. Al contrario, Gong ed Acid Mothers Temple lavorando insieme hanno paradossalmente dato vita ad un prodotto complessivamente più facile dei lavori incisi separatamente senza rinunciare ai loro rispettivi modi di essere e potrebbe essere un eccellente punto di partenza per chi vorrà esplorare le loro eccelse discografie.