A Musical Massacre
Non tutti i gruppi Hip-Hop sono uguali. C’è il filone afrocentrico (Tribe Called Quest, Brand Nubian), c’è quello socio-politico (Public Enemy, Dead Prez), c’è quello gangster (NWA, Geto Boys) e c’è quello street (Mobb Deep, Wu-Tang Clan). Poi ci sono tanti gruppi che fanno storia a se e che difficilmente possono essere associati ad un filone specifico. Come i Beatnuts.
La storia dei Beatnuts è quella di un trio ben conosciuto nell’area newyorkese già nei primissimi anni 90, soprattutto come dee-jay e produttori. Nel loro quartiere, il Queens, JuJu, Psycho Les e Fashion infiammavano feste locali con il loro sound e la parte vocale veniva in secondo piano. Il contratto con la Relativity Records però fu il veicolo che portò alla luce il loro esordio, prima su EP (“Intoxicated Demons”) poi su lunga durata, lp omonimo e contraddistinto da una copertina che richiamava un vecchio disco jazz di Lee Morgan. Ma all’interno c’era di più: oltre al manifesto talento nell’ambito musicale, i tre si dimostravano efficaci rappers i cui argomenti preferiti sembravano essere donne, birra e divertimento, senza mai cadere in gratuita violenza od eccessiva volgarità. Il disco rimane uno dei migliori esordi per un gruppo Hip-Hop ed ha dato via ad una carriera che ancora oggi rimane in piedi fulgida e con pochi strappi alla regola della qualità.
L’unica mancanza vera nelle vicissitudini dei Beatnuts è stata la riduzione da trio a duo per la decisione di Fashion di lasciare il gruppo dopo il primo album e convertirsi all’Islam (tra l’altro il suo unico album solista sotto il nome di Al Tariq chiamato “God Connections” è prodotto interamente dai suoi ex-soci ed è una rarità che vale la pena cercare). In ogni caso Psycho Les e JuJu non hanno perso smalto, anzi, i loro nomi rimangono il simbolo di un sound inconfondibile che in ogni serata festaiola che si rispetti non può mancare.
Ma quando si parla di festa, chi non conosce i Beatnuts non si aspetti suoni leggeri corredati da cori cantati con vista all’R&B. Al contrario, il suono dei Beatnuts è dichiaratamente “ghetto”, ballabile sì, spensierato senza dubbio, ma anche indiscutibilmente Hip-Hop. Per chi ne dubitasse, è consigliato l’ascolto di quello che si può definire il loro album più completo, “A Musical Massacre” del 1999.
Terzo di una saga che aveva visto i due evolvere verso campionamenti ancora più intossicanti nel secondo lavoro “Stone Crazy”, “A Musical Massacre” si mostra come la completa evoluzione sonora corredata da una certa maturità artistica, che trova esempio nel raro pezzo di denuncia sociale “Look Around” con la partecipazione dei Dead Prez, un’accoppiata bizzarra ma efficace. L’album in realtà prende forma attorno ad atmosfere più convenzionali (leggi “rilassate”) per il duo, campionamenti funky, riff che rimangono nel cervello e alcool a pioggia.
“Muchachacha” è un manifesto underground duro e puro che basa la sua forza su un loop ripetuto, semplice quanto morboso ed oltre ai Les e JuJu, a dar manforte al microfono intervengono i compari Willie Stubz (sempre ottimo) e Swinger. L’aria si tinge di weekend con “I Love It”, batteria scarna sorretta da suadente loop voce di femminile che ripete il titolo del pezzo, il cui testo in realtà mescola riferimenti street a puro “braggadocious” ed è costituito da versi scambiati tra i due. Rimanendo nell’ambiente street, introdotto da uno skit con tanto di sparatoria finale, “Slam Pit” è forse il pezzo più minaccioso del set, con un verso da all-star di Cuban Link ad aprire intervallato da vari scratch e seguito da Les e JuJu e soprattutto chiuso da Common che da allora forse non sentiamo più così “hard”.
L’album è colmo di riferimenti all’origine ispanica del duo e la parte del leone in questo comparto la fa il “latino king” Tony Touch, protagonista della breve ma intensa “Cocotaso” interpretata in classico “spanglish”. La parte più “seria” dell’album si chiude con “Monster For Music”, contraddistinta dal solito loop che dà dipendenza, questa volta preso da un giro di chitarra che sembra non finire mai.
Da questo punto in poi, sono tutti autorizzati ad indossare cappellini e metter bocca ai fischietti perché il party è ufficialmente aperto. “Puffin’ On A Cloud” sembra la versione newyorkese del P-Funk dei Parliament, grazie alla sua atmosfera rilassata e rilassante, quasi da fine serata. Ma i bagordi ricominciano subito con “Turn It Out”, elettrizzata dal coro di Greg Nyce e dalla combine fiati-batteria a mille che sembra solo invitare ad alzarsi dalle sedie. Si fa un tuffo nell’old school con “Story 2000”, costruita tra beatbox e handclap con sopra uno storytelling che sembra voler omaggiare Slick Rick, facendo suonare il tutto al limite del comico. L’hit del disco è senza dubbio “Watch Out Now”, la summa dei loop intossicanti ed indelebili, preso dal flauto di qualche oscuro disco jazz ed elaborato in modo da rendere il pezzo un classico assoluto della storia dell’Hip-Hop. Ascoltare per credere, le parole non rendono giustizia.
Ed in un album in cui non ci si prende quasi mai sul serio, non poteva mancare il re della commedia Hip-Hop, Biz Marzie, ospite in “You’re A Clown”, pezzo che ruba il filo conduttore alle filastrocche per bambini e che risulta alla fine una sorta di jam pazza ed improvvisata. Prima della conclusione c’è un nuovo pezzo “spaziale” che sa far rendere al massimo le allora inflazionate voci sintetizzate alla Zapp grazie ad un utilizzo perfetto incastonato tra rap aggressivi (grazie anche all’aiuto di Gab Goblin) ed il solito sound. Il commiato è tutto ispanico ed è la posse-cut “Se Acabo”, tutta rappata in spagnolo con ospiti locali che si sbizzarriscono su una clamorosa base che sfrutta pompanti fiati.
“A Musical Massacre” è l’ingrediente unico che occorre per tirarsi su da una giornata-no, per ravvivare una serata moscia, semplicemente per stare bene. E soprattutto, come ogni disco dei Beatnuts, è il modo migliore per ascoltare dell’Hip-Hop vero senza pensieri. Tutto da godere.