A Moon Shaped Pool – Radiohead – Recensione
Premetto di non essere un fan sfegatato dei Radiohead.
In altre parole, seguo con interesse i loro lavori, ma li ascolto senza quel trasporto di chi tende a prendere per oro colato tutto ciò che un artista propone. Non di meno, pur avendo per molto tempo quasi del tutto ignorato il loro album più rappresentativo, qualche anno fa sono fortunatamente arrivato ad ascoltare “Ok Computer!” con un orecchio più attento e lo ritengo, senza mezzi termini, un capolavoro assoluto della discografia rock di tutti i tempi.
Certamente a Thom Yorke e soci va dato atto di non temere mai di voler tentare nuove vie e nuovi suoni, rappresentando un raro esempio d’indipendenza, capace di resistere al successo planetario e a ogni tipo di pressione che da esso consegue (sostenitori, critica o industria discografica). Il risultato è che pubblicano solo dischi di cui sono pienamente convinti, senza compromessi e senza dover dar conto a nessuno. Così, sulla scia di questa più che legittima libertà espressiva, dopo l’ottimo “In Rainbows”, avevano forse spinto un po’ troppo il piede sull’acceleratore della sperimentazione, dando alle stampe quel “The Kings Of Limbs” che risultò subito alquanto complesso e difficile da digerire.
Dopo una lunga attesa, ad un lustro di distanza da quella prova – con un’operazione di marketing tipica delle loro che li ha visti prima sparire dai social network e poi pubblicare sulla rete i primi due singoli, uno dietro l’altro – ci regalano oggi questo nuovo lavoro intitolato “A Moon Shaped Pool” (che uscirà su cd, fisicamente, solo a giugno). Potremmo dire, in estrema sintesi, che si tratta di una sorta di ritorno al loro stile più apprezzato, fatto essenzialmente di quelle melodie malinconiche tanto care al loro frontman, che magari necessitano di più ascolti per entrare sotto pelle, ma poi, come un tatuaggio, magicamente non vanno più via. Il ruolo dell’elettronica – con quei tipici riverberi sghembi – e degli archi, resta quello di creare una sorta di “soundscapes” che aiutino ad evocare immagini indefinite e sognanti. Quanto alle chitarre (non di rado acustiche) ci sono, eccome, ma siamo lontani anni luce dal tipico suono rock degli esordi: i Radiohead guardano avanti e il passato serve solo come bagaglio di esperienze da portarsi dietro per poter rielaborare di nuovo il tutto, ancora e ancora.
Dare un giudizio generale con questa band è decisamente complicato, perché non suonano mai radiofonici, eppure ipnotizzano l’ascoltatore che desideri entrare in sintonia con i loro dischi. Si può quindi solo suggerire una sorta di chiave di lettura o se vogliamo di regola dell’approccio: prima l’attenzione al tutto per poi passare ai particolari. A differenza del solito, pur essendoci delle vette estetiche, non voglio segnalare nessun pezzo (vi basti sapere che non ci sono filler) in quanto, a mio modesto avviso, questo è un album che perderebbe gran parte del suo valore se preso a pezzetti, o anche ascoltandolo modificando la scaletta decisa dal gruppo.
Bisogna tuffarsi e seguire con qualche bracciata lenta questa “piscina a forma di Luna” e possibilmente perdersi, senza alcuna bussola o indicazione, prendendosi tutto il tempo necessario per poterne assorbire le toccanti vibrazioni emotive che è in grado di trasmettere. Personalmente vi consiglio di nuotarla con calma, ma tutta in una volta, da una sponda (la splendida iniziale “Burn the witch”) all’altra (il morbido piano e voce di “True love waits”)…magari immersi nella penombra o, ancora meglio, completamente al buio.
Per me è stata un’esperienza indimenticabile che non posso che augurare anche a voi.