20.000 Streets Under the Sky
Marah, chi era costui?
Il panorama rock di oggi è pieno di carneadi, spesso artisti di valore però condannati ad essere di nicchia perché il vero rock oggi è lontano dai gusti del grande pubblico. Questo discorso vale anche per Marah, un quartetto di rockers giunto ormai al quarto album e che – nonostante abbia avuto sponsor importanti: Steve Earle gli ha prodotto la seconda fatica, Bruce Springsteen ha partecipato alla terza – ancora non si è imposto come meriterebbe.
20.000 Streets Under the Sky è un titolo che ha omaggiato – con un anno di anticipo rispetto alle celebrazioni del centenario – Jules Verne: ma da bravi artisti rock radicati nella tradizione americana i Marah con la loro musica non viaggiano sotto i mari ma lungo ventimila strade sotto il cielo, un titolo questo che ribadisce il legame tra il rock a stelle e strisce e la vita on the road. Il fatto che tante delle storie che narrano siano legate alla loro città li accomuna a Springsteen, ma è presente anche una vena narrativa che fa pensare a Dylan.
Se per i testi il gruppo di Philadelphia si inserisce a pieno titolo nel filone del rock americano, per la musica il panorama è più ampio – le influenze di Dylan e Springsteen si sentono anche qui, soprattutto in questo ultimo lavoro le sonorità del pianista Mark Boyce fanno pensare a Roy Bittan della E Street Band. Panorama ampio dicevo e un’altra grossa influenza è senz’altro Phil Spector, ma nessuna di queste influenze è dominante perché la musica dei Marah dà vita a una miscela decisamente originale.
Una originalità legata agli autori delle canzoni del gruppo, i fratelli David e Serge Bielanko.
Ad un primo ascolto questo nuovo album suona troppo arrangiato, impressione confermata quando si legge sul libretto che per realizzarlo sono occorsi undici mesi in sala d’incisione. Rispetto alla freschezza di “Kids in Philly” ciò comporta un ascolto più faticoso – e certo è questione di gusti perché anche questo album contiene comunque un pugno di canzoni che si impongono subito: East, Freedom park, Going thru the motions, Pigeon heart e Soda sono grandi brani, di quelli che ti fanno venire voglia di inserire ogni giorno il CD nel lettore, senza dimenticare la bella e strumentale title track che chiude l’album.
Le undici canzoni che compongono questo disco sono, come detto, tutte firmate dai fratelli Bielanko, la selezione è quanto mai eterogenea giacché si passa dal rock di East o Pigeon heart, ai suoni sixsties di Freedom park e ancora a ballad – ma d’argomento tragico – come Soda, il tutto è amalgamato a dovere dalla voce di David Bielanko e dall’ottimo lavoro della band.
Questo è un album che farà la gioia di chi ama il buon rock, un disco che conferma – come già avevamo avuto modo di vedere qualche settimana fa scrivendo dei Lost Trailers – che in giro ci sono ancora tante botti che ne contengono di buono, basta solo conoscere la cantina giusta dove andarlo a cercare.